Si chiamano Idris, Moha, Amina. Vengono dal Marocco, dalla Tunisia, in genere dal Nord Africa, con la promessa di un’assunzione. Tecnicamente un’azienda italiana li ha chiamati offrendo loro un posto di lavoro. Per questa promessa hanno pagato fior di quattrini, dai 5 ai 10 mila euro, si sono indebitati, la famiglia si è impegnata, ha fatto sacrifici enormi.

E loro, i futuri lavoratori immigrati, arrivano qui convinti di poter cambiare vita: lavoro vuol dire permesso di soggiorno, casa, soldi da mandare in patria. E invece che cosa succede? Che quando vanno in prefettura per firmare il contratto, le società non si presentano. In molti casi spariscono del tutto.

Senza niente

“Così questi lavoratori si ritrovano senza niente, senza contratto e senza soldi – racconta Marion Gajda, responsabile politiche migratorie e inclusione della Cgil Parma –. Casi del genere sono sempre più frequenti, e hanno iniziato a intensificarsi con il decreto flussi in vigore attualmente. Queste persone arrivano da noi in Cgil dopo essere state in prefettura, ma le aziende non sono necessariamente del territorio, hanno sede in altre regioni o province, difficilmente sono rintracciabili, dichiarano di avere appalti attivi in settori come agricoltura, edilizia, logistica. Ma la realtà è ben diversa: nessun appalto, nessun cantiere, nessun lavoro. Solo una finzione”.

Nessun obbligo per le aziende

Il fatto è che l’attuale normativa non obbliga il datore di lavoro a presentarsi alla firma del contratto, né prevede sanzioni adeguate. Questo meccanismo apre le porte a soggetti senza scrupoli che sfruttano il decreto flussi come strumento per lucrare, per fare business, nei Paesi d’origine dove ci sono dei corrispondenti, come in Italia. E che lasciano i lavoratori stranieri senza contratto, senza documenti, senza diritti, insomma in mezzo a una strada.

Migliaia di euro

“Situazioni del genere capitano da noi sempre più spesso – afferma Elena Ferro, segretaria della Cgil Torino –. Le domande di flusso arrivano dalla zona di Latina e dalla Campania. Ma quando i lavoratori arrivano in Italia dopo aver sborsato 7 mila euro e si ritrovano senza contratto, iniziano a vagare per il territorio, così finiscono a Torino, approdano da noi. Ci sono casi in cui il datore si presenta in prefettura ma chiede altri 7 mila euro per la firma del contratto. Altri in cui il contratto è fittizio: l’immigrato non percepisce il salario ma paga la contribuzione di tasca sua per far figurare l’esistenza di un rapporto di lavoro”.

Capita anche che i lavoratori truffati siano disponibili a denunciare, ma poiché sono loro stessi attori del comportamento delittuoso, spesso non vanno in commissariato. “Siamo in un cul de sac – prosegue Ferro –. È evidente che queste persone sono oggetto di una tratta anche se giuridicamente non la si può definire così e probabilmente sarebbe difficile dimostrare il reato. Ma non si riesce a evidenziare la loro posizione giuridica perché se denunciassero rischierebbero”.

Anche la denuncia alle forze dell’ordine non è una strada così liscia: molti hanno paura di ritorsioni nei confronti della famiglia, dei figli, della moglie nei Paesi d’origine, dove ci sono gli intermediari.

Lavoratori nel limbo

“La situazione – dice ancora Gajda – è paradossale: una volta arrivato in Italia l’immigrato non può lavorare, perché non ha un contratto, ma non può neanche regolarizzarsi, perché non è ancora formalmente assunto, e non può tornare in patria, perché il permesso di soggiorno non viene rilasciato”. Si ritrova così in un limbo legale e umano, senza tutele, esposto al rischio di sfruttamento, lavoro nero e marginalità sociale.

“Questo decreto flussi – dice ancora Ferro – è un’enorme farsa: non risponderebbe ai reali bisogni neppure se funzionasse in modo egregio. D’altra parte, è impensabile che un imprenditore chiami un lavoratore straniero senza averlo neppure mai visto, senza avergli fatto un colloquio. E poi: questi datori che offrono lavoro agli immigrati sono impossibili da controllare”.

Tutti i correttivi

Per questo la Cgil di Parma ha chiesto controlli preventivi rigorosi sulla reale esistenza degli appalti dichiarati dalle aziende richiedenti, la tracciabilità completa di tutte le fasi della procedura, inclusi gli intermediari e i soggetti coinvolti nei Paesi di origine, sanzioni severe per i datori che non si presentano alla firma del contratto o che forniscono dichiarazioni false o ingannevoli. Inoltre, la possibilità per il lavoratore abbandonato di trasferire il nullaosta a un’altra azienda affidabile, senza dover ripetere l’intera procedura, e un sistema pubblico di incontro tra domanda e offerta, che elimini l’intermediazione privata e illegale.

“Ci troviamo a dover far fronte a un provvedimento pensato per regolarizzare, che invece genera irregolarità – conclude Marion Gajda –. Così com’è strutturato il decreto flussi rischia di essere una vera e propria macchina di produzione di sfruttamento, che danneggia i lavoratori e altera il mercato del lavoro, alimentando concorrenza sleale e sommerso”.