Questa è la sesta tappa di un viaggio, che ci auguriamo non breve, tra storie di inclusione, resistenza e disobbedienza civile. Storie di persone, istituzioni, associazioni e sindacati che compongono un'Italia diversa. Perché a fare da contrappeso al razzismo strisciante che trapela dalla comunicazione e dagli atti istituzionali del governo giallo-verde non c'è solo l'accoglienza stroncata a Riace. C'è anche un'Italia che resiste, giorno dopo giorno, all'odio contro i migranti riversato sui social network da migliaia di account, veri o falsi che siano. Un'Italia che dice no. Un pezzo di Paese che spesso non ha voce, che non trova quasi mai spazio nei talk show televisivi, nei “trend topics”, o sulle prime pagine dei quotidiani. Eppure c'è, e si dà da fare. Sempre nel rispetto dei princìpi della Costituzione.
Prima tappa: Saluzzo​ | Seconda tappa: Catania Terza tappa: Ventimiglia | Quarta tappa: Ferrara | Quinta Tappa: Matera 

Cumuli e cumuli di macerie fatte di lamiera arrugginita, assi tarlate, materassi e stracci. Sono a decine, tutti alti un paio di metri e poco distanti l’uno dall’altro. Si susseguono in un’area enorme, che potrebbe ospitare più di qualche campo da calcio. Da una delle cataste, accanto a quello che sembra proprio un pannello di eternit, spunta anche la ruota di una bicicletta da bambino. Fa un po’ impressione, soprattutto ora che l’aria comincia a scaldarsi, gli insetti ronzano impazziti tra le sterpaglie, e ogni tanto un camion rompe il silenzio pesante sferragliando sulla strada dissestata. Siamo nella seconda zona industriale di San Ferdinando, nel bel mezzo della Piana di Gioia Tauro. A dimostrarlo, nei dintorni, più di qualche capannone abbandonato: gusci vuoti di cemento grigio tra campi incolti. Oltre una bassa collina emerge invece il più grande porto del Mediterraneo, quello di Gioia Tauro, con le sue gru colossali e le grandi navi stipate di container color pastello. A qualche centinaio di metri ci sono i campi della Piana, 25 mila ettari coltivati ad agrumi: arance, limoni e kiwi, raccolti a tonnellate per la grande distribuzione. Fino al 6 marzo scorso, qui, sorgeva la più affollata baraccopoli d’Europa. Durante la stagione invernale ha ospitato oltre duemila braccianti provenienti dall’Africa Subsahariana. Non era certo un bel posto per campare: fatiscente, malsano e molto, molto pericoloso. In poco più di un anno, qui, il fuoco ha ammazzato tre persone: il 29enne senegalese Moussa Ba, il non ancora diciottenne Surawa Jaith e Becky Moses, 26enne nigeriana.

Fino al 6 marzo, qui, sorgeva la più affollata baraccopoli d’Europa, ha ospitato oltre 2.000 braccianti

Ora, però, non è rimasto altro che questa enorme mole di rifiuti speciali da smaltire. Lo sgombero ha fatto grande clamore. Anche se la raccolta era già finita da un pezzo, e la maggior parte dei migranti se n’erano già andati. A piedi, alla stazione di Rosarno verso altre piantagioni, o alla ricerca di casolari diroccati e nuove baracche dove passare la nottata. Nella baraccopoli era rimasto solo chi non sapeva proprio dove sbattere la testa. In ogni caso, arrivarono centinaia di poliziotti per scortare le ruspe. C’erano sciami di giornalisti delle tv e della carta stampata. E il ministro Salvini, immancabilmente, twittò: “Dopo anni di chiacchiere degli altri, noi passiamo dalle parole ai fatti”. Oggi, quasi tre mesi dopo, le macerie di lamiera e stracci sono ancora qui, in attesa di una soluzione definitiva. Proprio come i migranti della Piana.


La macerie della baraccopoli (foto di Stefano Iucci) 

DALLA RIVOLTA ALLO SGOMBERO
La Piana di Gioia Tauro, in realtà, è salita per la prima volta agli onori della cronaca nazionale per la rivolta di Rosarno del 2010, i violenti scontri a sfondo razziale scoppiati dopo il ferimento di due braccianti africani a colpi di carabina. Tra il 7 e il 9 gennaio la violenza si riversò nelle strade di questo paesotto sbeccato, trasformandosi ben presto in una vera e propria sommossa che vide contrapporsi forze dell'ordine, cittadini e migranti. Non senza il decisivo apporto delle 'ndrine locali. “Da molto prima, però, abbiamo a che fare con il problema della presenza e dello sfruttamento di migliaia di lavoratori che già vivevano in casolari abbandonati o in vecchie fabbriche dismesse”, ci racconta Celeste Logiacco, la giovane e battagliera segretaria generale della Cgil locale.

"Dopo lo sgombero della baraccopoli le uniche strutture di accoglienza sono un campo container e la nuova tendopoli

Celeste se ne sta seduta davanti a una grande foto aerea del porto, in un ufficio al primo piano della sede del sindacato. Un palazzetto bianco un po’ scrostato, che sembra davvero un fortino smarrito lungo la frontiera di un vecchio western in bianco e nero. Fuori dalla porta un paio di ragazzini pachistani sfruttano il wi-fi libero per ascoltare musica o chattare con qualche coetaneo. Tutt’intorno c’è Gioia Tauro, con le sue palazzine disordinate, i pilastri di cemento nudo e tutte le altre ferite di un territorio complicato. Una terra dalla quale in molti tendono a scappare. Il tasso di disoccupazione giovanile qui batte ogni record e lo spopolamento è un fenomeno visibile a occhio nudo. Lei invece è rimasta. E da qui combatte le sue battaglie contro il caporalato e per i diritti dei lavoratori. Battaglie che le hanno anche fruttato diverse minacce e un paio di atti di intimidazione, come le gomme del pulmino della Cgil squarciate proprio qui davanti e una macchina trafugata e poi fatta ritrovare a pezzi, a Rosarno. Celeste Logiacco dal 2017 occupa questa scrivania, prima era segretaria della Flai locale, poi gli è stata affidata anche la delega regionale all’immigrazione. “Dopo lo sgombero della baraccopoli – continua a raccontare, gettando un occhio fuori dalla finestra – le uniche strutture di accoglienza rimaste nella Piana sono un campo di 21 container tirato su dopo i fatti del 2010, e che oramai vive di vita propria, e la cosiddetta ‘Nuova tendopoli’, una struttura gestita dalla Caritas dall’agosto 2017 come soluzione temporanea, e cresciuta a vista d’occhio. In molti, però, s’arrangiano ancora nella campagne qui intorno. Lo sgombero del 6 marzo li ha sparpagliati ancor di più su tutto il territorio”. E non ha certo risolto il problema, visto che ora sono molto più difficili da intercettare.


In viaggio nella Piana di Gioia Tauro  

LE TENDE BLU DI SAN FERDINANDO
La nuova tendopoli si trova a un tiro di schioppo dalla vecchia, oltre una rotatoria e ciuffi di sterpaglie. Fuori ci sono una camionetta della polizia e una dei carabinieri. Di fianco, la Hospitality school, un bel prefabbricato in legno donato dal collettivo Mamadou di Bolzano che ospita le attività della Cgil, della Flai, di Emergency e delle altre associazioni che cercano di assistere i migranti. Gli agenti in divisa ciondolano all’ombra di un paio di alberi, e danno l'impressione d’essere un po’ annoiati. Le file delle tende blu del ministero dell’Interno sono circondate da un recinto, per entrare bisogna passare in un container e avere con sé un badge. I braccianti arrivano alla spicciolata, in bicicletta. Le portano a mano all’interno, poi si dirigono lenti verso la loro tenda. Dentro tutto appare molto ordinato e calmo, siamo negli ultimi giorni del Ramadan e gli ospiti sembrano un po’ provati. Anche qui però, non molto tempo fa, una delle tende ha preso fuoco e un migrante è morto avvolto nelle fiamme. Si chiamava Sylla Naumè, senegalese di 32 anni. Era una delle persone insediate nella baraccopoli demolita e spostate qui dopo il 6 marzo. Pure la notizia della sua morte è salita in fretta agli onori delle cronache nazionali, ma altrettanto in fretta è stata dimenticata.

L'incendio in cui ha perso la vita Sylla Naumè (foto: Cgil, Piana di Gioia Tauro)
 
Nel campo c’è anche una moschea di fortuna, una grande tenda bianca con tanto di tappeti da preghiera e ventilatori. Il numero di bici sparse in ogni angolo è impressionante. Un ragazzo piegato in una tunica bianca sta sistemando una catena. Da alcune tende spuntano antenne televisive, da una, giù in fondo, sventola una bandiera italiana. Vincenzo Alampi è il responsabile del campo per la Caritas, che gestisce il tutto attraverso l’associazione “I segni dei tempi”. È un diacono con quattro figli, ma ha i modi garbati di un parroco di campagna. Ci accoglie con un energico “Pace e bene”, e forse anche per questo tutti lo chiamano “Don Cecè”. Pure se i migranti molto spesso preferiscono un più diretto “papà”. Lo incontriamo in un container che funge da ufficio. È il primo di una lunga fila. Negli altri, allineati con cura, ci sono i bagni con le docce e la cucina.

"Al momento ospitiamo 500 migranti, provenienti da 13 nazioni dell'Africa e appartenenti a una cinquantina di etnie diverse

Dentro, gli operatori sudano sommersi dalle scartoffie. “All’inizio qui c’erano 48 tende, ora sono diventate 98 – ci racconta Don Cecè senza mai dismettere un sorriso cordiale –. Al momento ospitiamo 500 migranti, provenienti da 13 nazioni dell'Africa e appartenenti a una cinquantina di etnie diverse. Non è facile convivere con tutte queste lingue, abitudini e usanze differenti, ma in qualche modo ci riusciamo. Quindi direi che si vive nel miglior modo possibile”. I grattacapi che gli operatori devono affrontare, in effetti, sono molto concreti. E vanno dalla gestione dell’acqua calda per un numero sempre crescente di persone fino all’approvvigionamento, in qualche bottega etnica, di uno strano dado da cucina molto diffuso nell’Africa occidentale. Ma il problema più grosso resta quello del rinnovo dei permessi di soggiorno: “La maggior parte degli ospiti ha un permesso per motivi umanitari, quindi ora col decreto Salvini ci troviamo in difficoltà. Specialmente per chi è in scadenza, non sappiamo come andrà a finire. Speriamo bene”, spiega Don Cecè. Fuori dal container-ufficio, intanto, s’è già creata una lunga e rumorosa fila di braccianti in attesa di compilare moduli, avanzare istanze o semplicemente chiedere informazioni.
La nuova tendopoli di San Ferdinando (foto di Stefano Iucci)

Siamo fuori stagione e la maggior parte dei migranti in questo momento non ha un lavoro. Per ora, si limitano a sopravvivere, sbrigare pratiche e aspettare tempi migliori. Sono per lo più giovani maschi, ma c’è anche una coppia un po’ più attempata che vive in un container in fondo al campo. Ce li presentano come Maria e Antonio, cristiani del Ghana. Maria ha occhi grandi che si accendono sotto un turbante colorato, accarezza con mani callose il suo gatto grigio. Non le va di parlare con noi, e si nega con un sorriso largo. Aboulie Mbaye, invece, non si tira certo indietro. 21 anni, gambiano, look da cantante hip hop. Indossa un berretto con visiera, jeans dal cavallo basso e una canottiera attillata. In Italia dal 2014, è arrivato minorenne non accompagnato con un barcone dalla Sicilia. Quest’anno, finita la stagione, si è dato subito da fare e s’è messo a fare il benzinaio a Metaponto. È piuttosto lontano, ma per lui non è un problema. “Vogliamo solo lavorare e avere una vita dignitosa”, dice in un italiano stentato. E forse è proprio a causa della frustrazione, alimentata anche dalla mancanza di lavoro, o delle preoccupazioni legate al rinnovo del permesso, che ogni tanto la tensione nella nuova tendopoli di San Ferdinando s’ingrossa. Qualcuno non regge lo stress e magari si ribella. Qualcun altro, quando vede giornalisti e fotografi, gli grida in faccia tutta la sua rabbia. “Perché non si può vivere nelle tende per sempre – ci spiega Abulie senza mai rabbuiarsi –. Noi, in realtà, non vogliamo tanto, chiediamo solo un po’ di aiuto per campare onestamente”.


La storia di Aboulie Mbaye

NON SOLO DI PASSAGGIO
Nell’ultima stagione di raccolta, da settembre a marzo scorso, la Piana di Gioia Tauro ha ospitato circa 4.000 braccianti africani. “L’emigrazione, però, qui sta cambiando in fretta – ci racconta ancora Celeste Logiacco –. Fino a qualche anno fa, dopo la stagione, i campi si svuotavano totalmente. I migranti seguivano i ritmi della terra. Ora invece in molti si fermano anche durante i periodi estivi, cercando lavoro in altri settori”. E se prima c’erano solo giovani uomini, ora ci sono anche intere famiglie, bambini, e donne “che molto spesso finiscono per prostituirsi”. Anche per questo, accanto all’attività più propriamente sindacale, l’attenzione della Cgil si sta concentrando sulle donne. I problemi dei braccianti sono i soliti, quelli che si registrano in tutte le piantagioni italiane: caporalato, cottimo, buste paga gonfiate, giornate di lavoro non retribuite. Poco più del 90% percepisce tra i 25 e i 30 euro al giorno, pochi altri hanno un guadagno compreso tra 30 e 40 euro, qualcuno riceve addirittura meno di 25 euro. "In tutti i casi si tratta di una retribuzione inferiore rispetto a quella prevista dai contratti provinciali e nazionali di lavoro”. In poche parole, sono sfruttati. "Negli anni i problemi si sono acuiti - ci spiega Rocco Borgese, segretario generale della Flai Cgil della Piana -. La legge su caporalato non viene applicata in tutte le sue parti e mancano 5.000 ispettori del lavoro. Nonostante gli sforzi, non riusciamo ancora ad arginare un fenomeno che in questa zona è spietato. I lavoratori vengono massacrati di fatica". L'attività sul campo del sindacato, però, sta comunque portando dei risultati: nella stagione 2014-2015 i braccianti della Piana con un contratto erano l’11% del totale, nel 2016-2017 erano già attivati a quota 21%, nel 2018 al 27,82%.


La Piana di Gioia Tauro

L’Hospitality school, ora, oltre a uno sportello dedicato al lavoro, alla consulenza amministrativa e legale e a un’aula per i corsi di italiano, è diventato anche un punto di ascolto rivolto alle famiglie e alle donne. Qui si sono svolte diverse assemblee “parlando delle questioni più banali legate all'essere femminile. Ma anche delle difficoltà più grandi e del contrasto alla prostituzione”. A San Ferdinando, nell’ottobre scorso, è addirittura arrivata Urmila Bhoola, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla schiavitù, per parlare con le migranti del ghetto, per informarsi sulle loro condizioni. “Proviamo a ragionare in termini più ampi – dice ora, non senza una punta d’orgoglio, Celeste –. Siamo riusciti a sfondare un muro di diffidenza, a parlare direttamente con le persone, ad avere un contatto diretto”.

"Siamo riusciti a sfondare un muro di diffidenza, a parlare direttamente con le persone, ad avere un contatto diretto

E qualcosa sta pian piano cambiando: “Oggi abbiamo più strumenti, c’è una legge nazionale e una regionale sul caporalato, c’è maggiore attenzione delle istituzioni, più controlli da parte delle forze dell'ordine e dell’ispettorato del lavoro”. I prossimi passi che la Cgil ha intrapreso vanno ancora in questa direzione: “ In collaborazione con la Regione Calabria, stiamo per partire con il ‘Progetto Incipit’, per aiutare le vittime della tratta e dello sfruttamento della prostituzione con sportelli nei comuni di San Ferdinando, Rosarno e Taurianova. E poi a breve metteremo in campo un progetto dedicato alle famiglie e ai minori stanziali insieme a Save the children”.

UNA RETE DI SALVATAGGIO
“I migranti non scendono graziosamente dal cielo. L’emigrazione è il risultato di determinati processi politici ed economici. Di questo dobbiamo essere consapevoli, sia a livello locale che a livello nazionale e internazionale. Dobbiamo storicizzare i fenomeni e non essere nemmeno indifferenti ai drammi che queste persone vivono”. Andrea Tripodi è un ex professore in pensione. È tornato ad essere sindaco di San Ferdinando dopo che la giunta precedente era stata sciolta per infiltrazioni mafiose. Ha un bel profilo da pensatore della Magna Grecia e un eloquio piuttosto ricercato. Il municipio sta davanti a una grande piazza assolata e quasi deserta, se non fosse per una manciata di anziani appollaiati sulle panchine. Il paese pare accerchiato dai faccioni sorridenti dei manifesti elettorali per le europee. Sono ovunque, ormai laceri, tutti di candidati di destra: Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia qui hanno ottenuto bel oltre il 50% dei voti. Nell’atrio incontriamo un paio dei braccianti della tendopoli in fila a uno sportello, ci salutano. Al piano di sopra, il sindaco si divide tra i preparativi per l’arrivo dell’ambasciatrice del Burkina Faso, attesa il giorno dopo, e le pratiche per fornire 1.300 carte d’identità, con residenza virtuale nella sede del Comune.

"’I migranti non scendono graziosamente dal cielo. L’emigrazione è il risultato di determinati processi politici ed economici

“Servono ai braccianti per aprire un conto corrente, così da ricevere i bonifici dei datori di lavoro”, spiega. È lui ad aver firmato la delibera di sgombero per la baraccopoli. Non lo dice, ma l’impressione è che quella decisione sia arrivata da molto in alto, e che lui abbia fatto di tutto per renderla meno cruenta possibile. In ogni caso, ora si trova da solo a gestire tensioni sociali crescenti e qualche tonnellata di rifiuti speciali da smaltire prima dell’inizio della stagione. “Sono necessarie – continua allargando le braccia per includere un po’ tutti – politiche sociali e pedagogie pubbliche. Perché, senza, le differenze culturali partoriscono la mostruosità delle guerre tra poveri. Il mio è un grido d’allarme, che lancio con i limitatissimi mezzi di un sindaco di un paese come San Ferdinando”. Non senza però rivendicare “con orgoglio”, “la grandezza e la nobiltà dell'umanesimo Mediterraneo”, e contrapporlo a “una politica senza alcuna misericordia”.

La nuova tendopoli di San Ferdinando (foto di Stefano Iucci)

L’impressione che lascia questa terra complessa, ora che scorre veloce oltre i finestrini del treno ripartito in fretta dalla stazione di Rosarno, è che tutti coloro che lavorano per l’inclusione dei migranti, qui, siano come sotto assedio. E per resistere alle pressioni esterne provino a costruire una rete di salvataggio. Per i braccianti, certo, ma anche un po’ per se stessi. “Lavoriamo insieme, per affrontare nel modo più opportuno un fenomeno che presenta spinosità, grande sofferenza e dolore. Questioni di questo tipo si affrontano con intelligenza e lungimiranza”, dice il sindaco Tripodi. “Quello che stiamo affrontando – gli fa eco Celeste Logiacco – è un problema strutturale che va affrontato con delle azioni coordinate tra tutti gli enti per risolverlo definitivamente”. “Le tende per ora vanno bene – conferma Don Cecè dal campo della Caritas –, ma sono un sistema temporaneo, di passaggio, in attesa di una soluzione risolutiva”. L’obiettivo finale è l‘accoglienza diffusa. Un’esperienza di questo genere, tra l’altro, sul territorio c’è già. È Drosi, una frazione di poche centinaia di anime a una manciata di chilometri da San Ferdinando, dove quest’inverno 23 migranti hanno potuto affittare delle case a prezzi moderati grazie alle garanzie offerte dalla Caritas ai proprietari. Nel frattempo, però, questa rete di organizzazioni, associazioni e istituzioni locali ha già prodotto un risultato tangibile: le 16 pagine di un protocollo operativo unitario per i diritti e l’accoglienza dei lavoratori migranti (scarica il protocollo in pdf). Arriva dopo due accordi istituzionali che non hanno ottenuto i risultati sperati, ma stavolta lo hanno firmato anche i sindacati, con il prefetto, la Regione, i sindaci della Piana, le imprese e le forze dell’ordine.

"Il protocollo è una vittoria per noi, mi auguro davvero che non diventi carta straccia"

È un testo fitto che mette al centro la lotta contro lo sfruttamento del lavoro e individua soluzioni transitorie concrete per un’accoglienza dignitosa, come l’utilizzo di moduli abitativi simili a quelli impiegati per le vittime del terremoto del Centro Italia. “È una vittoria per noi che ci abbiamo lavorato a lungo, mi auguro davvero che non diventi carta straccia – conclude con un misto di speranza e comprensibile diffidenza Celeste Logiacco –. Perché, in questo protocollo, l’accoglienza e il lavoro finalmente vanno di pari passo. L’inclusione senza lavoro dignitoso, infatti, non è possibile”. Intanto, come ogni anno, nella Piana di Gioia Tauro si attende settembre, l’inizio della nuova raccolta e l’arrivo di migliaia di braccianti. E magari stavolta, nonostante tutto in molti ci credono, l’alba di una nuova stagione di accoglienza e dignità.
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