“Per abbattere il divario tra donne e uomini è necessario contrastare la precarietà, che colpisce particolarmente donne e giovani, e investire in occupazione di qualità con quote di assunzioni riservare alle lavoratrici”. Lo afferma Lara Ghiglione, segretaria nazionale della Cgil, leggendo in parallelo il Rapporto del World Economic Forum sul divario di genere e l’intervento della vice direttrice generale di Banca di Italia, Alessandra Perrazzelli, al convegno organizzato dall’Istituto “Le donne, il lavoro e la crescita economica”.

La lettura dei due documenti non può che lasciare sconcertati e allarmare. Non solo le donne per la loro condizione, pur questione centrale e rilevantissima anche rispetto all’articolo 3 della Costituzione. Il problema, infatti, è anche la zavorra – pesantissima – sulla economia italiana che la scarsa occupazione femminile e il gender gap salariale porta con sé. Anche rispetto alla denatalità che nei primi 4 mesi del 2023, lo dice Istat, sembra peggiorata rispetto allo scorso anno.

 

Europa e Italia

Islanda, Norvegia e Finlandia sono i primi tre paesi al mondo per riduzione dei divari di genere. Al quarto posto arriva la Nuova Zelanda e poi Svezia e Germania. L’Italia è al 79esimo posto: in un anno abbiamo perso 16 posti in graduatoria. Soprattutto, siamo al 104esimo posto per partecipazione economica, al 93esimo per gap nel tasso di attività e addirittura al 100esimo per le donne impiegate in professioni elevate. Secondo Linda Laura Sabbadini “la nostra è una situazione grave ma mai affrontata nella sua drammaticità. Facciamo i conti con una realtà difficile che priva le donne, siamo la settima potenza economica mondiale, che le costringe per oltre la metà a non essere autonome economicamente”.

Sostiene Bankitalia

A leggere i dati forniti da Alessandra Perrazzelli si capisce bene la posizione che sul tema occupiamo nel mondo. Nel primo trimestre 2023 il tasso di partecipazione femminile nel mondo del lavoro raggiunge il 57,3%, migliore rispetto a 10 anni prima, ma ben al di sotto rispetto a quel 60% previsto come obiettivo per il 2010 dall’Agenda di Lisbona. E ciò che sconcerta è che “la crescita della partecipazione femminile osservata durante lo scorso decennio è stata trainata dalle donne con almeno 50 anni, anche per effetto delle riforme pensionistiche”. E allora ben si comprende quanto affermato da Ghiglione. Le giovani donne, sebbene laureate e preparata come e più dei colleghi maschi, non riescono a entrare nel mondo del lavoro.

Più brave ma nelle materie "sbagliate"

Questo sembra emergere dai due studi. Nel mondo è bassa la presenza di donne nelle professioni Stem (science, technology, engineering and mathematics), e questa bassa presenza è legate alle scelte formative delle ragazze. Stessa cosa accade in Italia. Se le donne sono circa il 56% dei laureati nel nostro Paese, troppo poche scelgono le discipline scientifiche, benché il loro numero sia aumentato rispetto a 10 anni fa.

Afferma la vice direttrice di Bankitalia: “Possiamo pertanto affermare che una parte rilevante dei divari dipende dalla scelta del percorso scolastico. Nonostante le ragazze siano mediamente più brave fin dalla scuola dell’obbligo, queste tendono poi a prediligere indirizzi di studio associati a rendimenti inferiori nel mercato del lavoro. Ciò vale sia per chi decide di conseguire solo il titolo di scuola secondaria superiore sia per coloro che intraprendono studi universitari”. A questo proposito la segretaria della Cgil afferma: “Serve lavorare per incentivare la cultura delle differenze come opportunità, per evitare che a parità di titolo di studio e con risultati magari migliori rispetto a quelli dei colleghi maschi si continuino a discriminare le donne”.

I divari salariali

Sono troppo alti e non si riesce a colmarli. Le cause sono diverse. Intanto legate a stereotipi: le professioni a predominante manodopera femminile hanno tradizionalmente retribuzioni più basse, gli operai metalmeccanici guadagnano di più degli operai tessili, solo per fare qualche esempio. E poi le attività legate al lavoro di cura, invece che esser pensate come fondamentali per la sopravvivenza della società, vengono valutate meno di altre e allora assistenti sociali, educatrici, infermiere ecc. hanno paghe basse. Per non parlare delle addette alle mense e alle attività di pulimento e sanificazione.

Far figli penalizza

A incidere sulla differenza di reddito è anche la lentezza e la discontinuità delle carriere femminili. E, alla faccia di chi invoca un aumento della natalità, “nonostante questa si sia ridotta negli ultimi decenni – afferma Perrazzelli – la probabilità per le donne italiane di non avere più un impiego nei due anni successivi alla maternità è quasi doppia rispetto alle donne senza figli; questa differenza, benché si attenui nel tempo, è rintracciabile almeno fino a 15 anni dalla nascita del primogenito”.

Poveri salari, povere pensioni

Divario reddituale che, come è abbastanza ovvio, di acuisce con il trascorrere del tempo. E allora, accade che “verso la fine della carriera lavorativa, le donne che appartengono al decimo superiore della distribuzione salariale guadagnano in media il 30 per cento in meno rispetto agli uomini che si trovano nell’ultimo decimo. Questa disparità riflette anche il fatto che le donne hanno difficoltà a raggiungere posizioni di vertice all’interno delle aziende, e spesso lavorano in settori che offrono compensi mediamente più bassi. Di conseguenza, anche i redditi pensionistici delle donne risultano significativamente inferiori”, sostiene ancora la dirigente di Bankitalia.

Chi fa meglio di noi cosa fa?

La chiave di volta per ridurre i divari di genere, oltre che sconfiggere gli stereotipi, è investire nel welfare. Dice ancora Sabbadini: “Chi ha investito di più in welfare e soprattutto nella cura e nella riduzione del lavoro familiare sulle spalle delle donne, raggiunge livelli di parità di genere più elevati proprio sulla partecipazione economica”. Non solo. Anche rispetto al fisco occorre pensare bene a quali riforme si vogliono. Sostiene infatti Perrazzelli: “Sarebbe auspicabile anche la rimozione di quegli ostacoli impliciti nel nostro sistema di tassazione e trasferimenti, affinché la necessaria equità nel redistribuire le risorse non disincentivi l’offerta di lavoro, più spesso quella femminile. Trasferimenti che sono commisurati al reddito da lavoro familiare e decrescono bruscamente all’aumentare di questo possono indurre il secondo percettore di reddito, tipicamente la donna, a rinunciare alla ricerca di un impiego”.

Il ruolo del sindacato

Il sindacato può dare un grande contributo per la prevenzione e il contrasto al gender gap  – afferma Ghiglione -, ma ovviamente è necessario che anche Governo e aziende facciano la loro parte”. La piattaforma di genere della Cgil mostra l’impegno e l’attività della Confederazione di Corso di Italia.

Ma aumentare l’occupazione femminile deve essere compito dell’esecutivo che invece sembra un po’ distratto. Aggiunge la dirigente sindacale: “È un obiettivo che avrebbero dovuto perseguire i bandi pubblici legati al Pnrr, ma che rischia di venire vanificato a causa delle deroghe concesse e dei numerosi bandi andati deserti".

Servono, conclude la sindacalista, "servizi pubblici, in particolare servizi educativi per l'infanzia, per evitare che le lavoratrici madri continuino a essere discriminate in entrata e nei percorsi di valorizzazione nelle aziende. Nella premialità della contrattazione decentrata è necessario sganciare i riconoscimenti economici da criteri che penalizzano le donne e, attraverso la contrattazione, porre le condizioni perché le forme di lavoro agile non siano causa di nuova segregazione dai e nei contesti di lavoro per le donne”.