Leggendo quel che scrive su Rassegna Sindacale Giuseppe Amari (“L’impresa etica e i pericoli di un nuovo Leviatano”), resto piacevolmente stupito nel constatare come tante cose siano oggi cambiate. Colpisce, in un marxista critico come lui, l’insistenza nel sottolineare il valore della dignità della persona e dunque del lavoro umano, che è una delle principali attività della persona, attraverso cui si manifesta l’uso responsabile della libertà. Non vorrei sbagliare, ma mi pare che l’amico Giuseppe dia rilevanza all’interpretazione umanistica di Marx (che si può reperire nei giovanili Manoscritti, ma anche nei più maturi Grundrisse), già seguita da vari esponenti marxisti (giudicati all’epoca revisionisti dall’ex Unione Sovietica), oltre anche a mostrarsi sensibile per le migliori istanze del liberalismo sociale e democratico. Parlare di dignità della persona e del valore della libertà, contro tutti i nuovi Leviatani che possono sorgere all’orizzonte, compresa un’ideologica “impresa etica” di matrice hegeliana, che significa oggi?

Intanto, una convergenza in cui cattolici e sindacalisti della Cgil possono trovarsi: l’opposizione all’utilitarismo. In poche parole, l’utilitarismo – coniato da Jeremy Bentham – è ancora terribilmente diffuso. Il suo slogan, il maggior bene per il maggior numero, suona tuttora attraente. Esso implica la ricezione di una massima economica ben nota: ottimizzare i risultati e i ricavi; minimizzare i costi e le perdite. Se ciò riguarda calcoli di proporzionalità su beni e risorse, la massima ci sembra ancor oggi lecita in ambito economico; il problema è se tale massima si debba estendere ed esportare anche alle persone, trattate come beni e cose, trasformando l’utilitarismo in un’etica fondamentale universalistica, capace di inglobare ogni realtà, per dare un prezzo a tutto. Basata sul solo potenziale evocativo della conseguenza ultima dell’ottimizzazione, non a caso è stata definita anche un’etica consequenzialista.

Già Simone Weil ricordava che, se la scienza ci ha consentito di dominare la materia inerte (obbedendo alle sue leggi), il taylorismo ha poi aperto una nuova e sgradita frontiera: il dominio sulla materia vivente. In termini marxisti, si tratta della “cosificazione” dell’essere umano, ridotto a materiale manipolabile e vendibile. Così che la Weil citando Pio XI (Quadragesimo anno) riporta la seguente affermazione: “Dalle fabbriche la materia ne esce nobilitata; gli operai, avviliti”. Si finisce per ledere il noto imperativo kantiano per cui ogni uomo va sempre trattato non solo come mezzo, ma sempre e anche come fine in sé.

Detto in poche parole, o come Kant, ammettiamo che le persone non hanno valore (esprimibile in un prezzo finito), ma una dignità, che è incommensurabile (senza prezzo), e deduciamo che il lavoro o una prestazione ha valore, ma l’uomo no. Oppure, come sostiene l’utilitarismo, ogni persona vale uno, come ogni cosa. Dunque, per quest’etica, se eliminare un innocente è l’unico modo di salvar la vita di più innocenti, allora è lecito uccidere, rubare, mentire, ingannare ecc. Sull’altare dell’ottimizzazione, si possono di conseguenza sacrificare persone e minoranze. Se non bastasse, è un’etica pretenziosa, che si basa sulla presunzione di poter prevedere tutte le conseguenze del nostro agire, in vista dell’ottimizzazione. Credo che ognuno possa essere responsabile di varie conseguenze a breve, talvolta a medio-lungo termine; ma chi può calcolare tutte le conseguenze, anche a lungo termine del suo agire?

Ora, si finisce per cadere in quest’etica del risultato finale ottimale, manipolando persone, tutte le volte che prevale la ragion di Stato, gli interessi della nazione, del partito, o di una determinata impresa multinazionale o nazionale, di un’ideologia, ivi il successo della violenza rivoluzionaria, ammesso che ci sia ancora qualcuno che la ritenga il rimedio di ogni male; ricorso che lo stesso Amari ha più volte stigmatizzato, sapendo valorizzare altri aspetti condivisibili del marxismo. Parlare di dignità della persona, come fa Amari, significa convergere sul primato del lavoro soggettivo su quello oggettivo, enunciato da Giovanni Paolo II nella Laborem exercens, ma che ha nella Weil (morta nel 1943) un illustre precursore: “Non è per il suo rapporto con ciò che produce che il lavoro manuale raggiunge il più alto valore, ma per il suo rapporto con l'uomo che lo esegue” (L’ombra e la grazia, 1947).

La salvezza e la valorizzazione dell’uomo non può dipendere da un corretto calcolo di utilità; e neppure da strutture democratiche perfette e adeguate; non può dipendere da automatismi creati dalle scienze o dalla tecnologia robotica o da un pool di sociologi e psicologi. L’etica personalista (che implica la dignità incommensurabile di ogni persona), a differenza dell’utilitarismo (di radici calviniste, Taylor era calvinista), non ritiene che la cosa più importante sia ciò che l’uomo fa. Certo, siamo anche responsabili di ciò che facciamo; ma ciò che più importa – dal punto di vista morale – è innanzitutto cosa fa di se stesso una persona, quando fa qualcosa. Così uno Stato dotato delle strutture democratiche più avanzate, se in mano a persone poco raccomandabili, finirà per essere diretto da una banda di ladroni: lo paventava già Agostino. Lo stesso vale per un’impresa economica.

Il primo investimento è la persona. L’uomo è il primo fine del suo agire. Non solo siamo padri del nostro agire, come si evince dal fatto che ogni azione arreca conseguenze positive o negative sugli altri, ma innanzitutto siamo figli del nostro agire. Pertanto, la prima ricetta da insegnare ai nostri figli è di prendere sul serio se stessi, educandoli a una libertà responsabile. Su questo tipo di umanesimo può convergere un sindacalista della Cgil, come un cattolico. La differenza resta nel fatto che, per un credente, esiste un fine superiore all’uomo: l’amore di Dio, che desidera però essere amato in ogni uomo, quale portatore della sua immagine e somiglianza. Nell’interpretazione cara ad Amari, Marx può essere indicato come banditore di un umanesimo carico di speranze. Gli manca la dimensione trascendente: la finalità in Dio, che per Simone Weil è irrinunciabile; ma qui solo una risposta personale può seguire l’interpellarsi di fronte alla fede.

Si potrebbe pensare, banalizzando il confronto, che le prospettive della sinistra e quella cristiana siano inconciliabili, perché implicano uno scontro frontale tra materialismo e spiritualismo. Sarebbe un grave errore. Per un cristiano, la materia e il corpo umano sono usciti dalle mani di Dio. San Josemaría Escrivá, dal 1928 primo banditore della santificazione del lavoro professionale nella Chiesa cattolica, arriva a parlare di un “audace materialismo cristiano che si oppone ai materialismi chiusi allo spirito” (Amare il mondo appassionatamente, 2014). Affermazione anticipata dai seguenti pensieri (condivisi, a suo modo, dalla stessa Weil, per la quale la materia è sorella dell’intelligenza): “Questo Dio invisibile lo troviamo nelle cose più visibili e materiali”. La Weil parlerà di ripristinare “il patto originario tra lo spirito e il mondo” (Quaderni, 1982)

Esiste dunque un tipo di materialismo in cui cristiani e non credenti possono ritrovarsi, convergendo sulla priorità della dignità della persona ed eliminando antichi steccati tra la sinistra e il mondo cattolico. È già Socrate, del resto, a sostenere che la verità è qualcosa di divino. Così come Edith Stein, alla scomparsa del maestro Husserl, scrive che “chiunque cerchi la verità, che lo sappia o no, sta cercando Dio” (Lettera del 23 marzo 1938). Socrate e la Stein stanno dicendo che la verità – proprio perché ha a che fare con il divino – non si può “possedere”, né tanto meno si può imporre ad altri. Ciò equivale a sostenere un relativismo moderato. Se infatti è vero che la verità non si può possedere, il solo fatto però che esista e si possa cercare e almeno intravedere, come insegna Socrate, ci consente di distinguere tra opinioni più vicine o più lontane dalla verità; tra opinioni umane e opinioni disumane.

Giorgio Faro è docente di Etica applicata e di Introduzione alla filosofia presso la Pontificia Università della Santa Croce