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Un parlamento che non discute, che non modifica, che si limita a ratificare. È questa la fotografia che emerge da un recente report pubblicato da Openpolis, intitolato La scarsa influenza del Parlamento tra decreti legge e voti di fiducia. Un’analisi impietosa che mostra come il governo guidato da Giorgia Meloni stia progressivamente svuotando il dibattito parlamentare attraverso un uso sistematico e distorto di strumenti formalmente legittimi, ma sostanzialmente emergenziali.
Decreti legge a raffica
Il primo dato allarmante è l’abuso dei decreti legge, strumenti previsti dall’art. 77 della Costituzione per casi “straordinari di necessità e urgenza”, ma che nella prassi sono diventati la norma. Secondo i dati elaborati da Openpolis, oltre la metà delle leggi approvate in questa legislatura è di origine governativa e, nella maggioranza dei casi, si tratta proprio di decreti da convertire in legge entro 60 giorni. In pratica il Parlamento è chiamato ad approvare, sotto scadenza, provvedimenti scritti interamente dall’esecutivo.
Il problema non è solo quantitativo. L’effetto di questa dinamica è che il governo impone i propri tempi, restringendo lo spazio per l’iniziativa parlamentare. Le proposte di legge di deputati e senatori vengono accantonate, mentre l’aula si trasforma in una catena di montaggio per provvedimenti già confezionati.
Il trucco della fiducia
Ma c’è di più. Il meccanismo dei decreti legge viene reso ancor più stringente attraverso il ricorso sistematico alla questione di fiducia, che costringe il Parlamento a votare sì o no a scatola chiusa. Nessuna discussione sugli articoli, nessun voto sugli emendamenti. Solo un sì o un no al testo così com’è. Nel periodo analizzato da Openpolis, su 71 decreti già convertiti in legge, il 95% ha visto l’imposizione del voto di fiducia. Un dato che non ha precedenti nella storia repubblicana recente.
Non si tratta solo di un record numerico. L’uso sistematico della fiducia altera profondamente l’equilibrio tra poteri. Il Parlamento, che dovrebbe controllare e indirizzare l’azione del governo, si trova ridotto a passacarte. Il ricatto implicito è evidente: o approvi il testo così com’è, o il governo cade. E nessuna forza politica, nemmeno quelle di opposizione, è immune da questo gioco, che quando si è al potere diventa comodo quanto pericoloso.
Le riforme che non arrivano
Openpolis sottolinea anche un altro nodo critico: la mancata riforma dei regolamenti parlamentari, che oggi consentono al governo di porre la fiducia anche su maxi-emendamenti che riscrivono interamente il testo di legge. È un’aberrazione, si finge un dibattito in commissione, si fanno lavorare i parlamentari su un testo, salvo poi sostituirlo integralmente in aula, imponendo il voto di fiducia su un nuovo documento mai discusso.
Le riforme necessarie sono note da anni: limitare per legge i casi in cui è possibile porre la fiducia; restringere l’uso dei decreti legge alle vere emergenze; restituire centralità alle commissioni; garantire tempi certi per l’esame delle proposte parlamentari. Eppure, nonostante i proclami, nulla si muove. Perché chi ha il potere di cambiare le regole è lo stesso che oggi le sfrutta.
Un bilancio preoccupante
Il rapporto mette anche in luce che il governo Meloni è quello con il più alto tasso di decreti legge per ogni mese di attività rispetto alle tre legislature precedenti. E anche per numero di questioni di fiducia, si è già superato il primo governo Conte in appena metà tempo.
Questa centralizzazione del potere esecutivo ha un prezzo alto: l’indebolimento strutturale del ruolo del Parlamento, la compressione delle minoranze, la perdita di trasparenza nel processo legislativo. A essere penalizzati sono soprattutto i cittadini, che vedono ridotto il pluralismo e svuotata la funzione rappresentativa delle Camere.
Il potere va sempre bilanciato
La democrazia vive di contrappesi. Nessun potere, nemmeno quello legittimamente eletto, può agire senza controllo. Il Parlamento è nato per questo: per rappresentare, discutere, modificare, approvare. Quando questa funzione viene compressa, svuotata, aggirata, non è solo una procedura che salta. È l’intero edificio democratico a scricchiolare.
L’allarme lanciato da Openpolis non va archiviato come un esercizio accademico. È un segnale politico forte. A chi siede in Parlamento, a chi osserva da fuori, a chi ogni giorno si confronta con una democrazia che si restringe, poco a poco, nel silenzio delle aule.