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“Il dopo-coronavirus ci sarà se le persone restano vive. Se muoiono, non ci sarà alcun dopo”. È una logica semplice e impietosa quella che accompagna la brutale franchezza del segretario generale della camera del lavoro di Bergamo, Gianni Peracchi. Una logica che i residenti del territorio hanno imparato in una manciata di settimane. Per prima cosa, salviamoci la pelle. Poi penseremo a tutto il resto. Una logica stringente, dettata dalla lunga catena di errori madornali. Correggerli, probabilmente, riscriverà la tragedia del Covid-19 in Italia, fin dal primo atto. Perché il focolaio della bergamasca potrebbe essere stato precedente o al massimo concomitante a ciò che accadde a Codogno e nel lodigiano. Ma la reazione, fin dall’inizio, è stata molto diversa.
“Il 23 di febbraio – è una cosa che sta venendo fuori attraverso molte testimonianze e ricostruzioni – l’ospedale di Alzano Lombardo è stato chiuso per alcune ore, a causa della presenza di pazienti positivi al Covid-19. Già dal giorno prima si erano resi conto che questi malati, transitati per il pronto soccorso, erano presenti nel reparto di medicina di quell’ospedale almeno dal 15 febbraio. Solo che qui non hanno fatto come a Codogno, non hanno chiuso subito tutto. Nonostante l’ospedale resti un potente moltiplicatore del contagio, poiché un malato in reparto può venire a contatto con parenti in visita, vicini di letto e operatori. La trasmissione della malattia corre veloce. Eppure, il 23 febbraio hanno chiuso la struttura e, dopo poche ore, hanno riaperto, senza nessun altro tipo di precauzione. Non hanno verificato il personale medico e sanitario che era entrato in contatto con i pazienti. Non hanno sanificato l’ambiente. Non hanno fatto controlli a chi montava in turno. Sono andati avanti tranquillamente tenendo aperto. Anzi – ricorda Peracchi, che ha iniziato a lavorare, dopo il diploma, proprio come lavandaio all’ospedale di Gazzaniga, appena 8 chilometri da Alzano – la diffusione, sui social, della notizia della riapertura ha persino ingenerato un cauto ottimismo, che ha portato il territorio, la settimana successiva, al tentativo di provare a ripartire. Intanto il numero dei decessi è cresciuto esponenzialmente, in particolare ad Alzano e Nembro. Tutto ciò ha concorso, di fatto, all’accelerazione del focolaio”. Lo dice molto nettamente il segretario: “La responsabilità è della struttura ospedaliera e della Regione che, avuto notizia di ciò che stava accadendo, avrebbe dovuto disporre l’immediata chiusura del nosocomio”.
Il 15 febbraio, mentre la vita dell’intero Paese e della provincia di Bergamo continuava trafelata come sempre, una manciata di giorni prima che le breaking news di Codogno squarciassero il velo sulla presenza del virus in Italia, l’incubo del Covid-19 faceva segretamente breccia nel tessuto fragile e distratto della nostra quotidianità. In un territorio che, per densità di popolazione, urbanizzazione senza soluzione di continuità e ricchezza del tessuto produttivo, sarebbe presto diventato il detonatore perfetto del contagio. Nella bergamasca ci sono 85 mila aziende. Il 93 percento sotto i 9 dipendenti. Il 5 percento scarso con un numero di addetti tra 10 e 49. Il restante, di 50 e oltre. Parliamo di 490 mila unità, di cui 384 mila dipendenti. Eppure, dopo 15 giorni, ai primi di marzo, queste valli non erano ancora state dichiarate zona rossa. Anche quando gli ospedali arrivarono a un passo dal collasso, il numero dei posti disponibili in terapia intensiva si contava sulle dita di una mano e gli operatori sanitari denunciavano la mancanza di dispositivi di protezione, di pre-triage, di controlli a tappeto sul loro stato di salute, nel territorio la vita continuava, più o meno, come sempre. Sulle linee di produzione di decine di migliaia di fabbriche i lavoratori si davano da fare spalla a spalla. Perché tutto ciò? “La cosa certa è che c’è stato un rimbalzo delle responsabilità tra Regione Lombardia e governo”. Di fatto si è deciso di non decidere, mentre la situazione si faceva sempre più drammatica.
Torniamo al presente. Ormai anche a Bergamo vigono tutte le norme che conosciamo bene. Sul fronte lavorativo come sta andando? Gli imprenditori rispettano le nuove disposizioni? “Una massa notevole di imprese artigiane è ferma”, ci risponde Gianni Peracchi. “Sono 1.800 circa, dato di venerdì scorso, le aziende che, escluse dal decreto, si considerano invece riconducibili alle filiere delle attività essenziali. In realtà credo siano arrivate molte altre autocertificazioni. Stiamo ancora aspettando risposta, dalla prefettura, sulla possibilità o meno di accedere agli elenchi. I numeri forniti da Confindustria sono questi: degli 80 mila addetti delle imprese associate, ne risultano 22 mila in servizio. In questa prima fase abbiamo segnalazioni da parte dei nostri delegati e iscritti che ci dicono, in alcuni casi, di aziende che, magari per una percentuale minima della loro attività, potrebbero essere ricondotte alle cosiddette filiere essenziali e quindi, per quella ragione, hanno prodotto questa autocertificazione. In questi casi l’indicazione è che vengano mandate in prefettura le segnalazioni o le indicazioni della ditta con le motivazioni secondo cui noi riteniamo si possano tranquillamente fermare, anziché continuare a produrre in deroga”. Ma quanti imprenditori ci sono che sulle deroghe ci stanno marciando? Difficilissimo rispondere, soprattutto senza gli elenchi. Peracchi ci fa due esempi. “Il primo, positivo, è a Dalmine, dove la produzione delle bombole di ossigeno è ancora operativa. Tutti gli altri reparti della Tenaris sono fermi. Diversamente c’è una ditta che produce sacchetti di carta, solo in piccolissima parte riconducibile alle confezioni per beni alimentari. Una ditta che occupa un numero importante di persone e merita, secondo noi, attenzione dalla prefettura, perché potrebbe essere fermata”.
Ma chi lavora lo fa, effettivamente, in sicurezza? “Siamo cercando di accertarlo, anche attraverso una serie di incontri con l’ats, l’azienda di tutela della salute, e Confindustria. Al fine di dare garanzie a quanti stanno lavorando e di stabilire un protocollo di lavoro in sicurezza, che sarà utile anche nella fase lunga e graduale della ripresa di tutte le attività. Per fare un salto di qualità anche per il prossimo futuro. Il punto di riferimento resta il protocollo del 14 marzo. Vorremmo anche provare a redigere un formulario, un elenco di risposte ad alcune domande frequenti”.
Da segretario della camera del lavoro cosa ti resta di questa vicenda? “Tanta tristezza, sofferenza, stanchezza”, ci risponde Gianni Peracchi. “I morti li vedi, li conosci. Molti di noi hanno perso qualcuno. Genitori, suoceri, conoscenti, amici, collaboratori. Anche per questo abbiamo deciso di continuare a lavorare a ranghi ridotti, alternandoci, perché condividiamo l’obiettivo di ridurre al minimo la mobilità. E abbiamo attivato diversi centralini per non lasciare soli i cittadini. Le richieste sono le più variegate: dalla singola pratica, all’anziano che ti chiede di fargli compagnia. I telefoni dedicati alle categorie del privato squillano continuamente, come quelli del pubblico impiego, il primo fronte. Cerchiamo di dare una mano in ogni modo possibile. Credo sia utile anche il solo farci trovare e dare qualche risposta. E poi ci sono questi tavoli di confronto con associazioni datoriali e istituzioni. La nostra idea è di provare a fare sistema, qui a Bergamo, e con tutta la diversità dei ruoli e dei punti di vista, in questa fase, ci stiamo riuscendo. E proviamo anche a immaginare come si possa ricostruire alla fine di tutto questo”. Senza tralasciare quella logica dal quale siamo partiti: la priorità è la sicurezza dei cittadini, altrimenti il dopo non ci sarà.