Nel 2021 in Italia ci sono circa 230 mila lavoratori irregolari in agricoltura. Questi rappresentano oltre il 34% degli occupati nel settore primario. E l'irregolarità nel lavoro delle donne è sempre crescente: la componente femminile soggetta a irregolarità è pari a 55.000 unità. Nel complesso, su 820 milioni ore lavorate all'anno 300 milioni sono irregolari.

È quanto emerge dal VI Rapporto agromafie e caporalato, realizzato dalla Flai Cgil con l'Osservatorio Placido Rizzotto, e presentato dal presidente dell'Osservatorio, Jean-René Bilongo.

Secondo la ricerca, dunque, è irregolare un quarto degli occupati nel settore. L'irregolarità si trova in larga parte “concentrata nel lavoro dipendente, che include una fetta consistente degli stranieri non residenti impiegati in agricoltura”. Dal punto di vista territoriale, il lavoro illegale è radicato in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio con tassi d'irregolarità che superano il 40%, ma in molte regioni del Centro-Nord i tassi d'irregolarità degli occupati sono compresi tra il 20 e il 30%. 

Raddoppiano i migranti

Tra gli irregolari raddoppiano i migranti. Analizzando i profili, infatti, si nota che il numero dei lavoratori stranieri quasi raddoppia, in particolare quello dei cittadini comunitari. In oltre il 70% dei casi si tratta di lavoratori dipendenti, tra questi si osserva un maggior peso degli occupati che lavorano in regime di part-time. In agricoltura si riscontra la tendenza a generare “lavoro povero”, ovvero dove prevalgono individui, che pur avendo lavorato, mostrano redditi personali e familiari decisamente al di sotto del valore medio.

In Italia circa 8,6 milioni d'individui hanno un reddito familiare annuo inferiore alla metà del reddito mediano misurato su tutti i residenti, cioè inferiore a 8.300 euro. Escludendo i lavoratori stranieri non residenti, poco meno di un terzo dell’occupazione agricola (pari a oltre 300 mila unità) ricade in questa area a bassissimo reddito, con un’incidenza tripla rispetto alla media.

Identikit dell'irregolare

Il lavoratore che ricade nel lavoro irregolare non solo è "povero", quindi, ma non può neanche contare sul paracadute del nucleo famigliare. Come spiega il rapporto, appare evidente che le famiglie degli occupati in nero non siano in grado di svolgere un ruolo di paracadute in termini di sostegno economico. La vulnerabilità economica individuale non viene affievolita dalla presenza di un contesto familiare di sostegno, sia a causa della ridotta numerosità dei componenti del nucleo, sia del loro stato occupazionale.

Le famiglie con almeno un occupato nel settore sono mediamente piuttosto numerose (circa il 40% almeno quattro componenti), mentre le famiglie con un occupato irregolare sono in media più contenute, a prevalenza nuclei con un solo componente o coppie senza figli.

Il nuovo sfruttamento

Come sempre il Rapporto offre alcuni approfondimenti territoriali. In questo caso vengono esaminati il Friuli-Venezia Giulia e il Veneto, con l'obiettivo di mettere in luce l’evoluzione del caporalato nelle filiere produttive agroalimentari. Qui emerge una dinamica particolare: "L’appalto e il subappalto illecito, orchestrati da “colletti bianchi” senza scrupoli, con girandole di pseudo-imprese, spesso false cooperative, ma anche srl farlocche quasi sempre intestate a compiacenti prestanome, rappresentano l’evoluzione dell’intermediazione illecita di manodopera, che può essere definita 'nuovo caporalato' o 'caporalato industriale'". 

Un'evoluzione che, spiega la Flai, è "diventata un modello d’organizzazione del lavoro per imprese senza scrupoli che, pur di essere più competitive e di aumentare le proprie marginalità, calpestano contratti di lavoro, la dignità delle persone e le leggi dello Stato". E il modello non interessa solo l'agroalimentare: parte dai campi e arriva fino agli ospedali e ai macelli.

In altre parole, il sistema degli appalti e dei sub-appalti consente a committenti spregiudicati di avvalersi di manodopera a costi bassissimi, in alcuni casi oltre il 40%, con improprie applicazioni contrattuali, con orari e ritmi di lavoro pesantissimi, che genera inoltre imponenti evasioni da parte delle pseudo-imprese appaltatrici che non saldano i propri debiti con lo Stato (Iva, Irap, Inps) o con le banche.

Il caporalato dei colletti bianchi

Il Rapporto descrive insomma un nuovo sistema di sfruttamento, che passa dai colletti bianchi. Lo studio dei casi territoriali conferma, da Sud e Nord, "lo squilibrio profondo tra il valore aggiunto prodotto dall’economia agricola territoriale e la compresenza di lavoro sfruttato e gravemente sfruttato".

E ancora: "Scopriamo che pezzi o interi settori di produzione vengono delegati ai caporali, attraverso la creazione di cooperative spurie e l’apertura di finte partite Iva, strumenti con quali i caporali a loro volta 'subappaltano' pezzi di produzione, irrimediabilmente incardinata sullo sfruttamento e l’intermediazione illecita di manodopera".

Il caporalato, insomma, viene "perpetrato attraverso nuovi e più complessi meccanismi che vedono il coinvolgimento di attori qualificati (i cosiddetti 'colletti bianchi') e in generale figure in grado di mascherare l’illegalità attraverso un gioco di scatole cinesi, che rende ancor più complicata la prevenzione, l’individuazione e la conseguente repressione del fenomeno". 

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