Dopo ben 76 anni dalle prime elezioni democratiche, 67 governi e 30 presidenti del consiglio “tutti maschi”, anche l’Italia ha una premier donna. Una vera rivoluzione che, indipendentemente da come questa leadership verrà esercitata, cambierà le regole e il futuro di tutte le donne nel nostro Paese. Perché se è vero che le schegge di questo soffitto di cristallo rischiano di fare male alle italiane - ma non solo alle donne -, è anche vero che nell’immaginario collettivo una donna alla guida del Paese non sarà più cosa impensabile.

Opportuno e necessario quindi separare le due cose e non buttare il bambino con l’acqua sporca. Meloni è la prima donna presidente del consiglio ed essendo questa la maggiore carica di responsabilità politica nel nostro Paese, d’ora in poi nessun incarico di massima responsabilità sarà più inammissibile per le donne; Meloni, che è cresciuta nella cultura filofascista e ultraconservatrice del Msi prima e che oggi guida un partito nazionalista e ultra tradizionalista, è una leader di destra che promuoverà politiche di destra che non faranno bene alle libertà civili e individuali delle donne, degli omosessuali, delle lavoratrici e dei lavoratori, dei migranti e dei più deboli.

Come tutte le destre, poi, anche quella italiana conosce bene il potere evocativo e costruttivo/distruttivo delle parole. A partire da come, non a caso, Meloni ha chiesto di essere appellata: “Il presidente del consiglio” e non, come vorrebbe la grammatica italiana, “la presidente del consiglio”. Una richiesta che ha suscitato centinaia di commenti da parte di quelle “femministe”, quindi rivoluzionarie, sovvertitrici dell’ordine sociale tradizionale, da cui la premier vuole ostentatamente prendere le distanze per radicalizzare e tranquillizzare il proprio elettorato conservatore e portatore di valori squisitamente patriarcali: “Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana”.

Meloni non sceglie l’appellativo maschile per omologarsi alle leadership maschili ma per segnare la sua totale distanza e contrapposizione politica da chi a sinistra ha cercato di usare il linguaggio per dare un segnale di cambiamento e promozione di un modello sociale più paritario chiedendo di essere chiamata “la presidente” o “la ministra” o “la sindaca”, donne chi più chi meno di sinistra che propugnano un’idea di società e Paese contrapposta a quella di chi vota Fratelli d’Italia. Da un lato la tutela delle libertà e dei diritti civili e del lavoro, e dall’altra un modello di Stato autoritario, paternalistico, che impone ai cittadini come essere e ne limita le libertà.

Ancora una volta le parole non servono solo a esprimere concetti ma “costruiscono mondi” e la loro scelta ci dice molto, moltissimo di chi le usa.