“Che mese terribile - scrive il 10 ottobre 1992 Bruno Trentin sul proprio diario - Credo davvero si tratti del più triste e angoscioso della mia vita. Dopo un Comitato Direttivo durato tre giorni alla fine del quale mi sono sentito costretto ad accettare una rielezione - con tutti i miei dubbi che, del resto, sono andati crescendo in queste settimane - è ricominciata la via crucis di luglio. Certo con molte differenze: non mi sento più costretto come ero prima della firma dell’accordo del 31 luglio e si è andato ristabilendo un rapporto più chiaro con gran parte del quadro attivo e dei militanti della Cgil (…) A Firenze il 22, sono stato scelto per inaugurare questa nuova stagione e a parte l’aggressione che ho dovuto subire ho dovuto rivedere delle teste rotte e delle facce insanguinate di operai che difendevano il loro sindacato. (…) Restano le ferite, la scoperta che con tante persone che stimavo, al di là dei dissensi, un rapporto di reciproco rispetto, per non parlar di amicizia è finito per sempre; la consapevolezza di una frattura non tanto politica quanto morale, che coinvolge molti che hanno contato per tutta una parte della mia esistenza. Conosco l’amarezza, il dolore, il sentimento di solitudine e il desiderio di dissociarmi da un mondo che non mi appartiene, da una rissa che mi ripugna, da un intreccio di convivenze insopportabili e ipocrite e di compromessi con interlocutori dai quali non mi attendo più nulla, se non slealtà e doppiezza. Facile cadere nel vittimismo. Spero di scansare questo pericolo. Ma evitare la disperazione, questo è molto più difficile. Molti attestati di solidarietà. Alcuni rituali. Altri mi hanno confortato davvero e mi hanno ridato voglia di continuare, almeno per qualche giorno. Ma fra questi un messaggio di Pietro Ingrao e poi un abbraccio alla manifestazione dei Pensionati, il 26 settembre, è stato il fatto più importante della mia storia affettiva di questi mesi. Quella sera ho pianto disperatamente, come non mi era mai successo. E nella gioia che provavo scoprivo anche quanto grande era la mia disperazione”.

Il 31 luglio precedente Bruno Trentin aveva firmato, con molta inquietudine, il famoso accordo che di fatto poneva fine al meccanismo della scala mobile, dimettendosi da segretario il giorno stesso.

“Ho firmato quel brutto protocollo - diceva a Bruno Ugolini (l’Unità, 6 agosto) - per non aggiungere sfascio allo sfascio, per responsabilità verso il Paese e i lavoratori. C’era il rischio di una crisi di governo con pesanti ripercussioni economiche e finanziarie”.

“Ho letto - affermava - che si sarebbe trattato di uno stato di costrizione personale nel quale mi sarei trovato, come sottoposto a ricatti addirittura di singole persone. E così sarei stato costretto a firmare quell’accordo. E un quadro assolutamente ridicolo e anche mortificante per un episodio che ha avuto ben altro spessore. Io non sono stato sottoposto a nessun ricatto personale. Ho dovuto prendere in considerazione, come dirigente della Cgil, uno stato di fatto. Tale stato di fatto mi ha indotto ad assumere, appunto, una decisione che ho ritenuto conforme al senso di responsabilità che richiedeva la situazione venutasi a creare (…) Non sono pentito - lo ribadisco- né della firma, ne delle dimissioni. Tanto è vero che ho comunicato queste dimissioni alla Segreteria della Cgil presente a palazzo Chigi, prima di apporre la firma al protocollo presentato dal governo Amato. E le ho presentate prima proprio perché ritenevo che la firma, pur contravvenendo in alcuni punti al mandato ricevuto, non aveva in quel momento, alcuna alternativa. Questo ha voluto dire «decidere». Mi sono fatto carico, in un momento in cui solo poche persone potevano assolvere a questo onere, degli interessi generali che erano coinvolti, nell'ipotesi di una rottura tra sindacati e governo (…) Non le ho date per scherzo. Intendo, prima di discutere qualsiasi altra cosa, spiegare, al Direttivo della Cgil, le ragioni che mi hanno indotto a queste dimissioni. E che sono inseparabili dalle ragioni che mi hanno portato alla firma del protocollo, pur giudicandolo cosi negativamente”.

“Questa mia decisione - scriveva alla Segreteria - è dettata in tutta serenità dalla duplice e contraddittoria convinzione di avere operato per l’accettazione del testo finale del Protocollo presentato dal presidente del Consiglio, allo scopo di scongiurare l’impatto simultaneo, sui lavoratori e sull’opinione pubblica, in una situazione già cosi drammatica per il paese, di una possibile crisi di governo, di una frattura dei rapporti fra le tre Confederazioni sindacali e di una crisi grave nei rapporti unitari in seno alla Cgil; e, nello stesso tempo, di avere così disatteso il mandato, da me stesso sollecitato, di acquisire dal governo alcune modifiche sostanziali del testo da questi predisposto, in modo particolare per quanto attiene alla salvaguardia, anche nel corso del prossimo anno, della libertà di contrattazione nell’impresa e nel territorio. Nella sostanza e nella forma, oltre ad altre grave carenze presenti nel protocollo, quest’ultimo risultato non è stato ottenuto. E sarebbe da parte mia un’intollerabile finzione sostenere il contrario o attenuare l’importanza di questo insuccesso. Detto questo, non credo di dovermi pentire per la decisione che ho assunto di proporVi alle ore 19 di oggi di siglare il Protocollo a nome della Segreteria per le ragioni che già ho detto. In caso contrario il danno per la Cgil sarebbe stato maggiore, ne sono convinto, di un insuccesso forse ancora in parte superabile nella trattativa Confederale. Il mio errore, invece, è stato quello di non aver saputo, con tutta evidenza, prevedere e prevenire con sufficiente tempestività tutte le implicazioni derivanti da un evolversi pericoloso della vertenza e del confronto con il governo e di non aver agito con sufficiente rapidità per interrompere un processo che manifestava già nei giorni scorsi dei segni premonitori di involuzione e di pericolo per l’autonomia della Cgil. E di questo porto pienamente la responsabilità. Voglio darVi atto, cari compagni e compagne, della grande lealtà o della trasparenza dei Vostri comportamenti, e anche, se mi permettete, della straordinaria amicizia che avete voluto manifestarmi in queste ore cosi difficili. Di questo vi sarò sempre infinitamente grato”.

Il Comitato direttivo del 2-4 settembre 1992 respingerà le dimissioni del segretario che rimarrà in carica ancora per due anni.

Nel giugno 1994 si chiude a Chianciano la seconda Conferenza programmatica della Cgil.  È qui che Bruno Trentin annuncia la sua decisione di lasciare la direzione della Confederazione, “quella Cgil che conosco bene - affermerà - e di cui lascio la direzione con un sentimento di infinita riconoscenza (…) un sindacato di donne e di uomini che si interroga sempre sulle proprie scelte e anche sui propri errori, che cerca di apprendere dagli altri per trovare tutte le energie che gli consentano di decidere, di agire, ma anche di continuare a rinnovarsi, di dimostrare con i fatti la sua capacità di cambiare e di aprirsi a tutte le esperienze vitali e a tutti i fenomeni di democrazia che covano ora e che covano sempre nel mondo dei lavoratori”.

“Temo che questa volta - saluterà Trentin - la darò vinta a Valeria Fedeli che ha polemizzato con me per la faccia di bronzo che ero capace di mantenere, ma sarei un ipocrita se negassi che provo in questo momento una profonda emozione, un senso di dolore anche, come accade ogni volta che si interrompe un modo di operare ed anche un tipo di vita, mentre si affronta con qualche ansia un futuro che deve essere ancora disegnato (…) Credo di poter dire, se me lo permettete, che provo in questo momento, come militante della Cgil, un sentimento confuso di riconoscenza ma anche di fierezza: di riconoscenza per tutto quello che mi hanno dato questa Organizzazione, le persone che ho potuto conoscere, scoprire, stimare, apprendendo molto da loro; riconoscenza anche per le prove dure che, come molti di voi, ho dovuto affrontare, per gli insegnamenti che ne ho ricevuto e perché mai esse sono state vissute in totale solitudine. Anche in chi dissentiva radicalmente ho potuto sempre scoprire, cogliere rispetto ed affetto di cui li ringrazio (…) Senza averli conosciuti la mia vita sarebbe stata un’altra”.