Se il destino di una vita si intuisce dal suo primo scorrere, quella di Enrico Berlinguer non poteva essere diversa.

Nato a Sassari il 25 maggio del 1922, sin da bambino un’inquietudine profonda attraversa il suo carattere: le fughe in bettola con il nonno Ettore, mazziniano convinto, e con il quale condivide le prime letture; le mattinate nascosto in soffitta, dopo aver convinto i suoi amici a seguirlo per giocare a poker, invece di seguire le lezioni al liceo classico Domenico Alberto Azuni, lo stesso frequentato da Palmiro Togliatti; iscritto all’università, facoltà di Giurisprudenza, nel gennaio del 1944, prossimo alla laurea viene arrestato e condotto nella caserma che porta il nome di un suo antenato, Gerolamo Berlinguer, a suo tempo protagonista dell’arresto del brigante Battista Canu. Motivo dell’arresto il suo ruolo di “capopopolo” durante “i moti del pane”, l’assalto da parte dei cittadini più poveri e affamati a forni, frantoi, magazzini di farina e pasta.

Gli oltre tre mesi passati nelle patrie galere si riveleranno “un’occasione”, come lo stesso Berlinguer commenterà da adulto con la consueta e sottile ironia, anche grazie all’aiuto del fratello Giovanni, che lo rifornirà di libri vari e numerosi tra cui Baudelaire, Poe, Schopenhauer, soprattutto parecchi volumi di Kant, il suo filosofo preferito, che approfondirà ulteriormente in questo periodo. Per farlo uscire il più presto possibile il padre Mario si rivolgerà direttamente al “Migliore”, chiedendo a Togliatti di vigilare su questo figlio “dall’animo ribelle”.

Arrivano così gli anni della Fgci, il Fronte della gioventù comunista, di cui diviene segretario subito dopo il secondo conflitto mondiale. Per svolgere l’incarico si trasferirà a Roma, dove lo si poteva veder sfrecciare alla guida della sua americanissima Harley-Davidson, spesso dividendo la sella con qualche bella ragazza: non esattamente il profilo che ci si attende da un futuro segretario del Partito comunista italiano.

Ma Enrico Berlinguer è stato anche questo, e non ha mai smesso di esserlo, neanche quando gli impegni istituzionali lo costringeranno a soffocare i suoi istinti. Tra gli episodi più evocati, la crisi di governo sfiorata per quello passato alla storia come “il naufragio dell’Elba”. Nel 1977, un anno non proprio come tutti gli altri nel nostro Paese, pur sconsigliato da parenti e marinai il segretario di partito decide lo stesso di uscire in barca, non potendolo fare nella sua amata Stintino per motivi di sicurezza. Come previsto il vento si alza, il mare si ingrossa, e per molte ore non si hanno più notizie, sino a quando il cugino Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’Interno con la “K”, non scatena le motovedette per andarlo a recuperare.

Il coraggio di Berlinguer non si mostra soltanto tra le onde, anzi prende corpo dove meno te lo aspetti nel corso della sua carriera politica: per esempio a Mosca, con due discorsi anche questi rimasti nella storia, pronunciati tra il 1969 e il 1976. Nelle grandi sale dei palazzi del potere sovietico le sue parole risuonano forti e chiare, ed esprimono concetti come pluralismo, via italiana al socialismo, diversità, eurocomunismo. In una di queste occasioni Igor Ponomariov, il più stretto collaboratore di Breznev, abbandonò l’aula visibilmente contrariato; mentre nel settembre del ’76, durante la Festa dell’Unità a Torino, l’allora segretario del distretto russo di Stavropol, un certo Michail Gorbaciov, chiede di poter conoscere di persona l’uomo che aveva avuto l’ardire di pronunciare quelle frasi di fronte all’imponente nomenclatura moscovita.

Oggi, a cento anni dalla nascita, a quasi quaranta dalla morte, ogni giorno che passa ci rendiamo conto sempre più quale significato abbia la figura di Enrico Berlinguer nella nostra storia, e quanto ci manchi, per tanti motivi. Tra questi la sua folgorante contemporaneità, la sorprendente capacità, in particolare nell’ultima fase della sua vita, di guardare il mondo con una prospettiva rivolta al futuro, non solo per l’innata vocazione verso i “pensieri lunghi” ma per il desiderio, anche questo innato, di voler scorgere orizzonti nuovi, diversi, soprattutto per costruire un avvenire migliore alle generazioni che verranno. Anche qui sarebbero innumerevoli i riferimenti, le citazioni, le testimonianze lasciate da Berlinguer in questo senso. Ne prendiamo due.

La prima riguarda il tema della pace, tornato ad essere purtroppo di feroce attualità. Alla fine di una manifestazione organizzata a Firenze nel 1980, sul palco Berlinguer si esprime così:

“La pace è un bene supremo ed è un bene di tutti. Per garantire questo bene è indispensabile l’azione delle singole persone come delle organizzazioni e delle istituzioni di ogni genere, nazionali e internazionali. Una battaglia nella quale bisogna saper unire tutte le forze, al di là delle differenze di classe, di ideologie, di orientamenti politici. Ma perché occorre oggi una mobilitazione così ampia, così unitaria? Per una ragione ormai evidente: che, se è vero che la guerra non è inevitabile, è anche vero che essa non è impossibile e, proprio oggi, questo è un pericolo che si è fatto più vicino… …Parlo di una nuova guerra mondiale, la quale però, oggi, non avrebbe le caratteristiche, pur già terribili, di quelle che noi stessi abbiamo conosciuto e che tanti di voi ricordano, e tanti ne portano ancora il segno e il dolore. Parlo e dico di una guerra che l’umanità sinora non ha mai conosciuto, ma che, se dovesse conoscere, sarebbe sicuramente l’ultima, perché equivarrebbe alla sua fine. La pace, allora, cui sempre si è pensato come a un bene, diventa qualcosa di diverso: diventa una necessità, se l’uomo non vuole annientare se stesso. Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione, la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova”.

 

L’altra è contenuta nell’intervista con Ferdinando Adornato, allora stimato editorialista de l’Unità, che parte da una riflessione su “1984” di George Orwell, proprio negli ultimi giorni dell’anno 1983. Alla domanda su un eventuale utilizzo della “democrazia elettronica” in prossimo futuro, dato l’incedere di quelle nuove tecnologie di cui adesso siamo noi vittime e carnefici, Berlinguer risponde:

“La democrazia elettronica limitata da alcuni aspetti della vita associata dell’uomo può anche essere presa in considerazione, ma non si può accettare che costituisca tutte le forme della vita democratica. Anzi credo che bisogna preoccuparsi di essere pronti ad affermare questo pericolo anche sul terreno legislativo, e tra l’altro non credo si potrà mai capire cosa pensi davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone. Ad ogni modo lo ripeto: io credo che nessuno mai riuscirà reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi. Ogni epoca, certo, ha e avrà i suoi movimenti e le sue associazioni. Vedi per esempio nella nostra i movimenti pacifisti, i movimenti ecologici, quelli che, in un modo o nell’altro, contrastano la omologazione dei gusti e del conformismo: chi avrebbe saputo immaginarli quaranta o anche venti anni fa? Naturalmente compito dei partiti dovrà essere quello di adeguarsi ai tempi e alle epoche, è qui che si misura la loro tenuta: sulla loro capacità di rinnovarsi”.

 

Caro Berlinguer, nel frattempo i partiti, il tuo partito, quella capacità di rinnovarsi non l’ha affatto avuta, e la sua tenuta si è dissolta con la tua scomparsa. Per quanto riguarda la pace, e l’avanzare della democrazia elettronica, ne parliamo un’altra volta. In fondo oggi è il tuo compleanno.