Durante le prime ore del mattino del 19 maggio 1944 cinquantanove civili italiani vengono trucidati in località Fontanafredda, sulle pendici del Bric Busa, nelle vicinanze del passo del Turchino (diciassette delle vittime erano scampate alla strage della Benedicta compiuta solo un mese prima).

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I martiri della Benedicta

All'indomani del rastrellamento e la cattura dei partigiani della 3a Brigata Liguria, le truppe italo-tedesche fucilano i prigionieri e li seppelliscono in una fossa comune. Secondo Il Secolo XIX le operazioni nazifasciste di quei giorni costeranno la vita ad almeno 200 persone
I martiri della Benedicta
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Le modalità di fucilazione, come già per la strage alle Fosse Ardeatine, saranno particolarmente crudeli.

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Via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine

Il 23 marzo 1944 a Roma una bomba esplode colpendo un drappello di soldati tedeschi. Alle 22 e 55 del giorno successivo il comando nazista dirama alla stampa italiana il comunicato dell’avvenuta rappresaglia: "Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito". Le vittime sono 335
Via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine
Via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine


I prigionieri vengono fatti salire a gruppi di sei su delle passerelle di legno disposte su una grande fossa in modo che ognuno, prima di morire, potesse vedere i cadaveri dei suoi compagni.

Ai parenti non viene detto nulla per giorni, anzi in carcere si continuano ad accettare i pacchi di cibo e vestiario che le famiglie inviano loro. Poi però i pacchi cominciano a essere rifiutati e ai familiari delle vittime si comincia a raccontare di un fantomatico trasferimento in Germania. Saranno i familiari stessi a scoprire l’atroce verità recandosi personalmente sul luogo della strage e cominciando a scavare alla ricerca dei corpi.

“I parenti delle vittime - riporta il sito dell’Anpi di Genova citando Clara Causa e la sua opera La Resistenza Sestrese - incominciarono a salire nella vallata, chi scendendo dal treno a Mele, chi a Campoligure; tutti percorrendo sentieri circondati da un sorriso tenero di verde e di fiori. Sembrava impossibile che tra quel paradiso di colori e di pace avesse potuto esserci l’inferno. Furono le mamme Pestarino, Cavallo, Bavassano e la figlia di quest’ultima a scrutare angosciosamente il terreno, ogni sua piega, ogni masso, ogni cespuglio. E come scrive Renzo Baccino, era l’amore materno che le guidava e le conduceva verso la valle della strage. Con dei pezzi di legno si misero a scavare affannosamente il terreno vicino alla Fontana Fredda. Le loro mani incominciarono a sanguinare. Le poche gocce caddero nella fossetta e si confusero con le acque della sorgente. Ma dal terreno emersero alghe rossicce, rosse dal sangue dei loro cari lì sepolti. Non c’era più bisogno di scavare. I 59 martiri erano lì sotto. In questa valle fu compiuta l’ennesima strage dei barbari”.

Solo nel 1999, per la strage del Turchino e per quella della Benedicta, oltre che per quelle di Portofino e di Cravasco, verrà giudicato - e condannato - in Italia “il boia di Genova”, Siegfried Engel. Non sconterà mai un giorno di pena e morirà, nel suo letto, a 97 anni, nel 2006.

Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere 'no' al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa (Sandro Pertini, giugno 1960.)