Il 15 maggio del 1935 Vittorio Foa viene arrestato dal regime fascista su delazione dell’informatore dell’Ovra Pitigrilli. Resterà in carcere fino al 23 agosto 1943. Solo nel 1998, dopo sessant’anni, deciderà di rendere pubbliche le lettere spedite dalla prigionia ai genitori, unica scrittura che gli era consentita. 

“Mentre tutto il mondo cambiava attraverso guerre, stermini e odi razziali - si legge nella sinossi del volume - Foa affermava con le sue lettere, settimana dopo settimana, la volontà di dare comunque un senso alla propria vita e di costruire un futuro. Il carcere consentiva al giovanissimo cospiratore torinese di «Giustizia e Libertà» di approfondire la propria formazione, soprattutto attraverso lo studio con uomini come Riccardo Bauer e Ernesto Rossi.  Fu un esercizio della mente come scelta radicale e assoluta: più stretta era la costrizione, più determinata la voglia di trovare nuovi percorsi. Nelle lettere del 1938-39 i commenti sulla campagna razziale italiana sono una singolare eccezione al silenzio imposto agli ebrei di quel tempo. Paradossalmente la sola libertà di giudizio venne dal fondo di un carcere”.

“L’epistolario dal carcere fascista di Vittorio Foa (ndr costituito da 498 lettere e quattro cartoline postali) intitolato Lettere della giovinezza - scriverà Federica Montevecchi - è un documento che testimonia un periodo fondamentale della storia novecentesca e, al tempo stesso, il temperamento del suo autore, cioè quel modo di essere fondamentale che permane costante attraverso le età della vita e che sostiene l’agire.  Vittorio Foa è stato, infatti, fino alla fine della sua lunga esistenza, un individuo curioso, condizione che gli ha reso possibile diventare un intellettuale nel senso specifico del termine, cioè un uomo che ha trovato nella passione per la conoscenza (e nell’esercizio del dubbio che le è connaturato) la via, non certo lineare, per agire insieme agli altri, per intervenire in politica”.

“Forse - afferma del resto lui stesso nel saggio Le parole della politica - il degrado della politica e delle sue parole sta proprio nell’agire pensando di essere soli e nel pensare solo a se stessi (…) Io non credo che si possa insegnare a pensare al resto del mondo, ma pensare se stessi insieme agli altri è l’unico modo per ricostruire i cosiddetti valori”. Con la caduta di Mussolini Vittorio passa dal carcere all’illegalità nella Resistenza.

Deputato alla Costituente darà un determinante contributo alla stesura degli art. 39 e 40 della carta costituzionale sulla libertà di organizzazione sindacale e sul diritto di sciopero. Padre costituente, deputato socialista per tre legislature, nel 1955 diventa segretario nazionale della Fiom per passare, alla morte di Giuseppe Di Vittorio, alla Segreteria della Cgil. Nel 1970 decide di lasciare gli incarichi sindacali per dedicarsi agli studi. Dal 1987 al 1992 è senatore, eletto nelle liste del Pci e poi del Pds, come indipendente.

“Essere a sinistra - spiegava spesso - vuol dire essere qui e anche altrove, vivere oggi e contemporaneamente domani; vuol dire agire per sé e anche per gli altri (…) Non solo io, ma gli altri; non solo qui, ma altrove; non solo oggi, ma domani”.

“Sembrava che ridesse sempre - scriveva di lui Concita De Gregorio su l’Unità - anche quando parlava serio. Anche in questa foto qui sopra dove forse ride davvero, chissà, non è proprio un sorriso in effetti: è quel suo modo di stare al mondo con i pugni chiusi, la fronte alta, la coscienza limpida e nelle parole un dubbio, sempre. Alla fine di ogni frase una domanda, perpetua ricerca. Mai un lamento. Di tutti gli altissimi insegnamenti che Vittorio Foa, morto alla fine di un secolo irripetibile, ci lascia in dote questo che sembra un dettaglio mi pare stasera il più grande. Quel sorriso, diverso e lo stesso in tutte le foto e i ricordi. Ciò che in una vita come la sua un sorriso perpetuo significa: andare avanti, pensare agli altri, provare ancora, non chiudersi, non arrendersi”.

È proprio nei momenti di sbandamento della razionalità delle nostre azioni, quando la mente e la volontà sono screditate, è proprio allora che occorre non già bendarsi, ma tenere gli occhi bene aperti e tentare di riasserire quella razionalità e riabilitare la volontà e l’intelligenza decaduti (V. FOA, 19 febbraio 1939).