Il 12 maggio del 1977, durante la manifestazione organizzata dai radicali per l’anniversario del referendum sul divorzio, scoppiano tafferugli con le forze dell’ordine durante i quali viene colpita mortalmente alle spalle Giorgiana Masi, 19 anni, una ragazza come tante altre che pagherà l’incolpevole colpa di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato.

Il padre era parrucchiere, la madre casalinga. Frequentava il quinto anno del liceo scientifico Pasteur. La domenica distribuiva il giornale Lotta continua, a scuola animava un collet­tivo femminista. Uscendo di casa aveva detto alla mamma: “Non suc­cederà nulla. È una giornata di fe­sta. Canteremo e festeggeremo. Se accadono incidenti mi metto al sicuro”. Poche ore dopo sarà uccisa, non si saprà mai da chi.

Giovanni Salvatore, un testimone racconterà:

Mi sono voltato ed ho visto che la ragazza era ancora a terra. Sono tornato indietro per aiutarla ad alzarsi. Ho provato a tirarla su ma non ce la facevo. Ho quindi invocato aiuto mentre continuavano a sentirsi spari di lacrimogeni ed altri spari, provenienti sempre da Ponte Garibaldi. A questo punto si sono fermate tre persone ed abbiamo sollevato la ragazza per le gambe e le braccia. Io l’ho presa per il braccio sinistro. Il punto in cui è caduta è più o meno all’altezza della segnalazione stradale Atac Taxi vicino al semaforo, sempre nei pressi di Piazza G. Belli. Una volta sollevata l’abbiamo trasportata di corsa nello slargo vicino al capolinea degli autobus 56 60, vicino al WC pubblico. Durante il percorso la ragazza ha mormorato: “Oddio che male”. La persona che la trasportava per il braccio destro ha risposto: “Sarà stata la botta, non ti preoccupare”. Io pensavo che fosse caduta inciampando o perché colpita da un candelotto, anche perché, una volta messa a terra, non abbiamo notato alcuna traccia di sangue. Adagiata per terra, il corpo della ragazza si è improvvisamente irrigidito, le mascelle serrate, le braccia tese, gli occhi sbarrati. Qualcuno ha detto che forse era una crisi epilettica. Una persona, presentatosi come medico appena laureatosi, è accorso a prestargli i primi soccorsi. A questo punto qualcuno ha detto che si era fermata una macchina (…) abbiamo quindi sollevato la ragazza e adagiata sul sedile posteriore. Vicino all’autista della macchina c’era un ragazzo con il cappello che alle richieste del medico di accompagnare la ragazza in ospedale ha risposto che ci sarebbe andato lui. Ricordo che negli attimi in cui cadeva la ragazza non c’erano né macchine in movimento né moto di grossa cilindrata. Ho riconosciuto il giorno successivo, sui giornali, Giorgiana Masi nella ragazza che ho soccorso.

Il ministro dell’Interno Francesco Cossiga negherà che gli agenti abbiano usato armi, ma gli scatti del fotoreporter Tano D’Amico pubblicati dalla stampa mostreranno agenti in borghese che sparano ad altezza d’uomo. “Andai a letto convinto che Cossiga si sarebbe dimesso la mattina dopo - dirà il fotografo anni dopo - Invece sono io che sono stato dimesso da tutto, perché avevo rotto le scatole”.

Se la rivoluzione di ottobre fosse stata a maggio - se tu vivessi ancora - se io non fossi così impotente di fronte al tuo assassinio - se la mia penna fosse un’arma vincente - se la mia paura esplodesse nelle piazze - coraggio nato dalla rabbia strozzata in gola - se l’averti conosciuta diventasse la mia forza - se i fiori che abbiamo regalato - alla tua coraggiosa vita nella nostra morte - almeno diventassero ghirlande - dalla lotta di noi tutte donne - se... non sarebbero le parole a cercare di affermare la vita - ma la vita stessa, senza aggiungere altro”, si leggerà sui manifesti che tappezzeranno Roma nei giorni a seguire.

Una vita, una morte, quelle di Giorgiana Masi, ancora lontane dalla verità, in uno dei tanti, troppi, misteri italiani ancora irrisolti. L’inchiesta sulla sua morte verrà chiusa il 9 maggio 1981. Il giudice istruttore scriverà: “Impossibilità a procedere poiché rimasti ignoti i responsabili del reato”.

“Purtroppo - scriveva Camilla Cederna - ne abbiamo visti tanti, di ragazzi morti per le strade dal Settanta a oggi, in quelle pose di disperato abbandono, e tutt’intorno la gran chiazza di sangue: abbiamo udito dichiarazioni di ministri che il giorno dopo capovolgevano la verità e caroselli di bugie di funzionari di polizia e semplici agenti: abbiamo assistito tanto a complicati giochi di bossoli che sparivano e ricomparivano per poi sparire un’altra volta, come alla manipolazione delle pistole, mentre i testimoni oculari costantemente inascoltati, si sgolavano a raccontare quanto avevano visto”.

L’unico imputato della vicenda Masi rimane l’ormai scomparso avvocato milanese Luca Boneschi, denunciato per diffamazione dal giudice istruttore Claudio D’Angelo e ignaro protagonista di una delle tante gaffe del ministro Di Maio. “Un certo Boneschi - tuonava il ministro nel 2017 nel pieno della campagna per il taglio dei vitalizi - si è fatto un giorno in parlamento: prende 3.108 euro”. Luca Boneschi moriva nell’ottobre del 2016. Eletto il 12 maggio 1982, nella VIII legislatura, in sostituzione del dimissionario Marcello Crivellini, presenta le proprie dimissioni dall’incarico (accettate dall’Aula) il giorno successivo, motivandole con l’intenzione di non volersi avvantaggiare della prerogativa dell’immunità parlamentare nel difendersi dall’accusa per diffamazione mossagli.

“Da molti anni - scriveva alla presidente Nilde Iotti - ho assisto, insieme all’avvocato e deputato Franco De Cataldo, la famiglia di Giorgiana Masi, la ragazza uccisa durante una carica della polizia sul Ponte Garibaldi di Roma il 12 maggio 1977: una famiglia che ha creduto di potersi rivolgere alla magistratura per avere giustizia almeno morale di fronte alla morte atroce e assurda di una figlia e di una sorella amatissima. Ho messo le mie capacità professionali a loro disposizione. Ben quattro anni è durata l’indagine: troppe cose più urgenti assillavano il giudice. E, al termine dell’istruzione, il giudice ha archiviato: tecnicamente, ha dichiarato non doversi procedere per essere ignoti gli autori del fatto. Una decisione a mio giudizio altrettanto assurda dell’assassinio di Giorgiana, poiché le modalità della carica, della sparatoria e della morte sono purtroppo assai semplici: ma il giudice ha decretato che gli assassini sono senza volto, senza nome e anche senza appartenenza; sono «sciacalli ignoti».

Oggi pende da molti mesi una istanza di riapertura di quel processo, sempre davanti ai giudici romani che hanno sempre troppe altre cose da fare. Ma, fuori dagli strumenti professionali veri e propri, io mi sono ribellato a quella decisione, e ho criticato pubblicamente il giudice e le altre autorità implicate nella vicenda. Il giudice si è offeso e mi ha querelato. Così, finalmente, nella vicenda giudiziaria per l’assassinio di Giorgiana Masi c’è almeno un imputato noto: l’avvocato della famiglia. Questo processo è già iniziato, ma non concluso, anche se la sentenza è vicina: e io non voglio in nessun modo ritardare a un giudice, e a me stesso, il diritto ad avere giustizia. Sapendo, per esperienza professionale, che i meccanismi delle autorizzazioni a procedere non sono né certi né rapidi, scelgo di non metterli neppure in moto.

Con una speranza: che questa mia non semplice né facile rinuncia serva a ricordare, ai radicali e ai non radicali, che per Giorgiana Masi giustizia non è stata fatta; che in qualche cassetto del Parlamento giace da tempo una proposta di legge per una Commissione d’inchiesta sui fatti del 12 maggio 1977 che sarebbe - a mio modestissimo parere - gravissimo se non venisse approvata e presto; che, di fronte alla bancarotta della giustizia e all’oblìo della politica, a me resta questo modo per dire - con amore per la giustizia e la politica - la mia solidarietà a Vittoria, Aurora e Angelo Masi”.

Aurora ed Angelo sono morti alcuni anni dopo la tragedia. “Non ho nemmeno seguito le rievocazioni sul ’77, sono fuori da tutto, per non dover ricordare ho preferito andarmene da Roma. E in tutti questi anni ho preferito tacere”, diceva nel 2007 Vittoria. Un silenzio carico di mille domande. Una su tutte: chi è Stato? Perché - ancora una volta - qualcuno è Stato.