Nato a Baida, un’antica frazione di Palermo, da padre palermitano e da madre di origini lucane, entrambi contadini poverissimi, sin da giovane Pio La Torre si impegna nella difesa dei diritti braccianti nella Confederterra, nella Cgil, nella Partito comunista italiano.

“Nel 1947 - ricordava Emanuele Macaluso in una delle sue ultime interviste rilasciata a Buona Memoria lo scorso anno - io divenni segretario generale della Cgil Sicilia, La Torre lavorava invece al Partito, a Bisacquino. Qui, durante l’occupazione delle terre, ci fu uno scontro con la polizia. Pio venne arrestato insieme a un gruppo di contadini perché un commissario, testimoniando il falso, sostenne che lui gli aveva un colpo di legno in testa. Per un periodo, dopo la morte di Fasone, bravissima persona, morto giovanissimo, io feci a Palermo sia il segretario della Camera del lavoro che il segretario regionale. Pio La Torre mi sostituì prima alla guida della Camera del lavoro e poi, nel 1956, quando andai al Pci, alla Segreteria regionale della Cgil. Il nostro è stato sempre un rapporto intenso, una collaborazione affettuosa, un rapporto davvero forte”. 

Nel 1969 Pio si trasferisce a Roma per prendere la direzione prima della Commissione agraria e poi di quella meridionale. Messosi in luce per le sue doti politiche, Enrico Berlinguer lo farà entrare nella Segreteria nazionale del Partito. Nel 1972 viene eletto deputato alla Camera nel collegio Sicilia occidentale, e da subito in Parlamento si occupa di agricoltura. Diceva: “Occorre spezzare il legame esistente tra il bene posseduto e i gruppi mafiosi, intaccandone il potere economico e marcando il confine tra l’economia legale e quella illegale”.

Rieletto alla Camera nel 1976, è componente della Commissione Parlamentare Antimafia fino alla conclusione dei suoi lavori nel 1976; nello stesso anno è tra i redattori della relazione di minoranza della Commissione antimafia, che accusava duramente Giovanni Gioia, Vito Ciancimino, Salvo Lima e altri uomini politici di avere rapporti con Cosa Nostra e nel 1980 propone una legge che introduce il reato di associazione di tipo mafioso.

Alla domanda “Generale, perché fu ucciso il comunista Pio La Torre?”, il 10 agosto 1982, nell’ultima intervista prima della sua uccisione rilasciata al giornalista Giorgio Bocca, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, da poco nominato prefetto di Palermo, rispondeva: “Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge”.

Agostino Marianetti scriveva su Rassegna Sindacale

Assassinato barbaramente da sicari mafiosiPio La Torre muore insieme al compagno Di Salvo che lo accompagnava. Stava recandosi in una sezione periferica del Pci. Muore sul campo, concludendo una vita dedicata esclusivamente alla causa dei lavoratori, del movimento operaio, del popolo siciliano. Un uomo all’antica si dice di lui. Figlio delle lotte per l’occupazione delle terre negli anni immediatamente successivi alla Liberazione. Lì inizia la sua battaglia contro la mafia e contro i soprusi, in una zona chiave della prepotenza e della violenza: Corleone; un paese che a dispetto dei suoi abitanti è noto solamente per la residenza di grossi boss mafiosi. Per la sua attività al fianco dei contadini siciliani La Torre conosce anche la galera, negli anni più duri della repressione autoritaria. Diviene, quindi un dirigente della Cgil di primo piano. Per poi mobilitare tutto il suo impegno in qualità di dirigente del Partito comunista italiano (…) Secondo l’ipotesi più accreditata si pensa che i motivi dell’assassinio siano da legare alla decisione e all’impegno che Pio La Torre ha dedicato in questi anni nella lotta alla mafia e contro gli interessi di ogni tipo - speculativi, legati alla droga, ai rapimenti - che i gruppi mafiosi perseguono in Sicilia e in particolare nel palermitano. La Torre diede un nuovo impulso a questa lotta tradizionalmente condotta dal movimento operaio e sindacale confermando un impegno fatto di lotta, di rischio personale così come stato per tanti militanti politici e sindacali. Tra cui quello di Salvatore Carnevale. Quando un uomo politico democratico della statura di Pio La Torre vie ne colpito, è un intero popolo a soffrirne, è questa nostra instancabile fede di democratici a soffrirne (…) La Cgil, il sindacato italiano, anche nelle ore di commozione sanno esprimere una volontà di lotta. Non dimentichiamo Pio La Torre, così come non dimenticheremo il nostro compito di lottare per la libertà, contro le violenze e i soprusi. Ricordiamo questi giorni di lutto per il movimento operaio come un monito a perseverare nella nostra battaglia di tutti i giorni e nel la nostra instancabile speranza per un avvenire  migliore. 

“La Torre - ci raccontava ancora Emanuele Macaluso - ritorna in Sicilia quando sono già cominciati i delitti di mafia. È lui a chiedere di mandare nell’isola il generale Dalla Chiesa. È lui ad avanzare la proposta del reato di associazione mafiosa e della confisca dei beni. È sempre lui a sottolineare e il pericolo dell’infiltrazione della mafia nella costruzione della base missilistica di Comiso, contro le mafie ed in nome della pace. Io credo che la richiesta di sequestro dei beni mafiosi sia stato il motivo principale per cui la mafia lo abbia ucciso. La sua richiesta fu una condanna, ed infatti poco dopo fu ucciso. Nell’aprile 1982 io ero direttore de l’Unità. Stavamo preparando il numero del Primo maggio, giorno in cui il giornale diffondeva 1.000.000 di copie. All’improvviso irrompe nella stanza il caporedattore del giornale, Carlo Ricchini, il quale mi dice: 'Hanno ucciso Pio La Torre'. Immaginate quale fu la mia reazione e la mia emozione. Così seppi dell’uccisione di Pio La Torre. Il lunedì di Pasqua Pio era venuto a Roma, a casa mia. Mi aveva portato il formaggio fresco di cui ero goloso. Io allora abitavo a via Monferrato, pranzammo insieme e scendemmo dopo pranzo a fare una passeggiata sul Lungotevere. Mentre passeggiavamo lui mi disse: 'Dì a Berlinguer che adesso tocca a noi!'. La mafia aveva già ucciso, ed era chiaro che quel ‘noi’ era riferito a se stesso. La mia personale convinzione è che fu Ciancimino a suggerire la sua uccisione. E questa è la storia….”.

Una storia, tante storie, che non ci stancheremo mai di raccontare. Perché “fare memoria è un dovere che sentiamo di dover rendere a quanti sono stati uccisi per mano delle mafie, un impegno verso i familiari delle vittime, verso la società tutta, ma prima ancora verso le nostre coscienze di cittadini, di laici e di cristiani, di uomini e donne che vivono il proprio tempo senza rassegnazione”.