L’episodio che ha ispirato la data nella quale oggi in molti Paesi del mondo si celebra la Festa del lavoro avvenne a Chicago il 1° maggio del 1886, giorno dello sciopero generale negli Stati Uniti per l’ottenimento di migliori e più umane condizioni di lavoro. La protesta andò avanti per giorni e il 4 maggio culminò con una e propria vera battaglia tra i lavoratori in sciopero e la polizia di Chicago: undici persone perderanno la vita in quello che sarebbe passato alla storia come il massacro di Haymarket dei martiri di Chicago.

La festa, ratificata ufficialmente a Bruxelles nell’agosto 1891 (II Congresso dell’internazionale), è osservata e praticata già nel 1890 con manifestazioni a livello nazionale e locale. Recita un volantino, diffuso a Napoli in occasione del Primo maggio 1890: “Lavoratori, Ricordatevi il 1.° maggio di far festa. In quel giorno gli operai di tutto il mondo, coscienti dei loro diritti, lasceranno il lavoro per provare ai padroni che, malgrado la distanza e la differenza di nazionalità, di razza e di linguaggio, i proletari sono tutti concordi nel voler migliorare la propria sorte e conquistare di fronte agli oziosi il posto che è dovuto a chi lavora. Viva la Rivoluzione sociale! Viva l’Internazionale!”.

“Oggi il proletariato d’Europa e d’America passa in rivista le sue forze mobilitate per la prima volta come un solo esercito - scriverà il Primo maggio 1980 da Londra Friedrich Engels - sotto una sola bandiera, per un solo fine prossimo, la giornata lavorativa normale di 8 ore, proclamata già nel congresso di Ginevra dell’Internazionale del 1866 e di nuovo nel Congresso operaio di Parigi nel 1889 da introdursi per legge. Oggi i proletari di tutti i paesi si sono effettivamente uniti. Fosse Marx accanto a me a vederlo coi suoi occhi!”.

In Italia il fascismo abolisce nel 1923 (R.D.L. 19 aprile 1923, n. 833 in G.U. 20 aprile 1923, n. 93, p. 3190) la ricorrenza, preferendo una autarchica Festa del lavoro italiano il 21 aprile in coincidenza con il Natale di Roma.

“Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia - recita la legge - vista la legge 23 giugno 1874, n.1968; vista la legge 19 giugno 1913, n.630; udito il Consiglio dei ministri; sulla proposta del presidente del Consiglio dei ministri, ministro dell’Interno, di concerto con il ministro della Giustizia e degli affari di culto; abbiamo decretato e decretiamo: il 21 aprile, giorno commemorativo della fondazione di Roma, è destinato alla  celebrazione del lavoro ed è considerato festivo, eccetto che per gli uffici giudiziari. È soppressa la festa di fatto del 1° maggio e tutte le pattuizioni intervenute tra industriali ed operai per la giornata di vacanza in tal giorno dovranno essere applicate pel 21 aprile e non pel 1° maggio. Il presente decreto entra in vigore oggi e sarà presentato al Parlamento per essere convertito in legge. Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare. Dato a Roma, addì 19 aprile 1923”.

Con queste parole, Mussolini giustificava la sua decisione: “La grande guerra, che ha valorizzato ogni manifestazione di attività, ha sviluppato anche in tutte le classi una più profonda coscienza delle energie e del lavoro individuale. Celebrare, in un giorno all’anno, queste energie e questo lavoro è sprone ad una più fervida, proficua attività collettiva e nazionale; ed è bene che ciò sia formalmente riconosciuto in una legge dello Stato. E perché la celebrazione si ricongiunga ai ricordi della nostra storia e del genio della stirpe, il Governo ha voluto farla coincidere con la data del 21 aprile: la fondazione di Roma, data immortale da cui ha inizio il lungo, faticoso, glorioso cammino dell’Italia”.

Ma il Primo maggio mantiene e anzi rafforza la sua carica “sovversiva”, divenendo occasione per esprimere in forme diverse la fedeltà a un’idea.

“Il ricordo più lontano - racconterà Vittorio Foa - è quello dei giorni in cui a me, scolaretto appartenente a famiglia piccolo-borghese di orientamento giolittiano, si aperse per la prima volta in modo ancor confuso ma non dimenticabile, il senso profondo dell’urto delle classi, della missione del mondo del lavoro. La mattina del 27 aprile, sotto la pioggia, mentre andavo a scuola, venni attirato da crocchi di gente che stazionavano in Corso Siccardi, davanti alla Camera del Lavoro. Mi avvicinai e vidi lo scempio. La sera prima i fascisti, sotto l’occhio benevolo delle «forze dell’ordine», avevano invaso, incendiato e devastato la casa del popolo. A mucchi, nelle pozzanghere fangose, libri, carte e documenti. Il palazzo, annerito e come vuoto, offriva una squallida immagine di maestà decaduta. Tutto intorno, gruppi di operai, cupi e silenziosi, col viso sconvolto e i pugni stretti dall’ira. Sapevo per ammaestramento famigliare che i fascisti erano gente cattiva, faziosa e violenta. Ma la sensazione che provai andava al di là di questo giudizio. Era un senso di pena di cui non sapevo rendermi esatto conto e che solo molto più tardi compresi essere la pena di chi assiste a una profanazione, a un sacrilegio: la vista di quei libri, di quelle carte disperse nel fango, rimase nella mia memoria e operò a distanza di anni, insieme con altre esperienze, come un richiamo alla verità. E pochi giorni dopo quella triste mattina, scopersi per la prima volta il Primo Maggio, quando vidi gli operai torinesi uscire nelle strade e nelle piazze e levare le loro bandiere contro fascisti e polizia, e affermare colla loro presenza la loro volontà di lotta. Debolezze ed errori di capi li segnavano all’isolamento e alla sconfitta, ma bastava vedere i loro volti per comprende che la storia e l’avvenire erano con loro, contro i profanatori e i loro complici. Tanti anni e tante vicende seguirono, ma quel più lontano ricordo di Primo Maggio di lotta accompagnò e diede un senso ai tanti primi maggio della galera, anche essi giorni di festa e di lotta, giorni di fede combattiva nell’avvenire”.

All’indomani della Liberazione, il Primo maggio 1945, giovani che non hanno memoria della Festa del lavoro e anziani si ritrovano, insieme, nelle piazze di tutta Italia. La testimonianza di Anita Di Vittorio ci restituisce l’atmosfera di quella giornata: “Ho assistito in seguito, nel corso di più di dieci anni, a centinaia di manifestazioni delle quali Di Vittorio fu oratore ufficiale, ma quel Primo Maggio resterà tuttavia, per me, indimenticabile”.

Piazza del Popolo, continua Anita, “non fu mai così bella, mi sembra, come quella mattina di sole: lunghi cortei di lavoratori, le bandiere bianche, rosse e tricolori alte nel vento, giungevano da ogni quartiere della città, accompagnati dalle bande dei tranvieri e dei ferrovieri. C’era anche, ricordo, la banda di Madonna della Strada che avanzava tra grandi applausi, preceduta da un’immagine religiosa. Tutti portavano abiti lisi e i volti apparivano segnati dalle lunghe privazioni, e tuttavia una intima gioia, una fiducia in sé, uno slancio di speranza, sembrava animare e spingere la folla. Risuonavano i canti e grida di evviva. Gruppi di giovani, seduti per terra in cerchio, cantavano inni partigiani. Le ragazze distribuivano coccarde tricolori e garofani rossi. Dalla folla saliva verso il palco dei dirigenti sindacali un’ondata di affetto. Anche la terrazza del Pincio era gremita. Io lessi nel volto di Peppino, assieme all’emozione, come un’ombra di smarrimento. Poi cominciò a parlare e subito si stabilì tra lui e la folla una comunione di spirito. Ogni sua parola, così semplice (egli non sapeva cosa fosse il parlar difficile, il parlare ornato) andava a chi lo ascoltava con la efficacia delle cose sempre pensate, esprimendone i sentimenti più elementari e profondi. Ascoltando Di Vittorio ognuno, credo, pensava che, se avesse potuto parlare, avrebbe anch’egli parlato così, avrebbe detto quelle cose, non altre e in quello stesso modo. Era questa la sua grande forza. Egli dava forma ai pensieri e ai sentimenti inespressi degli altri: parlava per tutti”.