131mila contagi e 423 morti. Riparte da questo dato sugli effetti del covid nei luoghi di lavoro del nostro Paese, pubblicato a gennaio dall’Inail, l’attività del patronato Inca sul territorio. Una delle vittorie più eclatanti, tra le segnalazioni che arrivano a pioggia, l’ha riportata la sede di Milano che ha seguito i ferrovieri che si erano ammalati nelle prime settimane. In cinque hanno già ottenuto il riconoscimento della malattia come infortunio da lavoro e un’altra cinquantina di colleghi stanno affrontando, insieme all’Inca Cgil, il percorso che dovrebbe portarli a questo obiettivo. “Un obiettivo non scontato – ci ha spiegato Laura Chiappani, operatrice dell’Istituto di assistenza della Cgil – perché nella famosa circolare dell’inail del 3 aprile 2020, quella che tracciò il primo solco relativo alla questione covid e lavoro, i ferrovieri non erano inseriti nell’elenco dei lavoratori citati tra quelli a rischio contagio. L’elenco era a titolo esemplificativo, non esaustivo, ma di fatto l’assenza del settore dei trasporti rendeva più incerto l’esito delle eventuali richieste. Tutto stava e sta nell’utilizzare il margine lasciato scoperto dal silenzio della normativa”.

Di sicuro fa scalpore pensare che proprio loro, tra i cosiddetti eroi che, durante il lockdown, si recavano ogni giorno sul posto di lavoro per assicurare un servizio essenziale, non fossero citati nella norma. Per giunta proprio i lombardi, per lo più dipendenti di Trenord, esposti a un ciclone pandemico di proporzioni tali da rendere la loro terra la più colpita al mondo. Giorni durissimi, ci racconta chi ha preferito restare anonimo, nei quali quasi quotidianamente capitava la telefonata di un collega a casa malato, la voce rotta da colpi di tosse fortissimi che davano un volto concreto alla paura ignota del virus. Squadre di operai della manutenzione che un giorno lavoravano e il giorno dopo si scoprivano tutti positivi. Giorni in cui i dpi scarseggiavano in ospedale, figuriamoci lungo i binari di una ferrovia o sulle banchine di una stazione.

“I lavoratori – ci racconta Laura Chiappani, che di storie da raccontare ne avrebbe tante – inizialmente hanno pensato a curarsi. Solo in un secondo tempo, quando riuscivano a sostenere una conversazione telefonica, hanno iniziato a informarsi. Dopo i primi casi, il tam tam dei delegati sindacali negli impianti ha diffuso la notizia che la malattia poteva essere riconosciuta come infortunio sul lavoro. Mi iniziarono ad arrivare i primi nominativi, li contattavo, mi accertavo dell’esistenza di una prova documentale del tampone effettuato, che è stato il discrimine nella procedura, e segnalavo all’Inail. L’importante era ed è, per chi volesse intraprendere questo percorso, la presentazione di un documento che accerti il tampone positivo all’inizio del contagio e i certificati di malattia con diagnosi e prognosi per la conta dei giorni".

"Noi inviamo la documentazione all’Inail. Se è completa, l’Inail avvia l’istruttoria e, per prima cosa, contatta l’azienda per conoscere la mansione del lavoratore e per sapere se, al tempo del contagio, fossero stati adottati protocolli covid. Qualora la documentazione non fosse completa, aiutiamo i lavoratori a reperire, laddove possibile, i documenti mancanti. Fondamentale, in questa battaglia, anche e soprattutto nei casi di covid senza esiti gravi dal punto di vista medico, è il riconoscimento del periodo. In questo modo si fissa un marker temporale, poiché non possiamo sapere quali saranno gli esiti a lungo termine. Avere il riconoscimento di un periodo covid darà al lavoratore il diritto, nell’arco dei 10 anni successivi, di ottenere tutela Inail se si manifesteranno effetti importanti riconducibili alla malattia. Di fatto – sintetizza Laura Chiappani – il riconoscimento della malattia è la garanzia della retribuzione ad ora, mentre l’infortunio Inail ti garantisce, oltre alla retribuzione ora, l’eventuale risarcimento, ora e per dieci anni, nonché esenzione dal ticket”.

Ora vi contattano di più? “Ora che iniziano a parlarne anche i giornali le richieste stanno arrivando a grappoli. Per contattarci le persone possono recarsi presso lo sportello che garantisce accesso fisico o mandando una mail o tramite delegati e funzionari. Sono tantissime le chiamate”.

Com’è la situazione a guardarla dall’Ufficio Inca di Milano? “È ed è stata una vera e propria epidemia qui. I dati dei riconoscimenti Inail fanno impressione, soprattutto avendo ormai la consapevolezza che quelli in nostro possesso sono, probabilmente, la punta di un iceberg. E poi le storie restano impresse. Te ne dico una per tutte: in questi mesi ho seguito la caposala di un ospedale che si è contagiata sia nella prima che nella seconda ondata. Le è andata bene tutto sommato, ma da nove mesi ha perso gusto e olfatto”.