Rosso come l’inclusione, verde come l’ambiente, blu come l’innovazione. Sono i nuovi colori del servizio pubblico del futuro, immaginati nel corso dell’iniziativa “Rai. Bene pubblico in un paese che cambia”, promossa dalla Slc Cgil e andata in onda questa mattina, 20 novembre, su Collettiva.it. Al tavolo, interlocutori istituzionali come il presidente della commissione di Vigilanza Rai, Alberto Barachini, ma anche professionisti del mondo della comunicazione e dei media, come Sergio Bellucci, ex dirigente sindacale, saggista e scrittore. Per il segretario generale della Cgil Maurizio Landini “il servizio pubblico può diventare uno strumento strategico per il cambiamento epocale che il paese sta affrontando”. Una nuova funzione sociale della Rai è, secondo Landini, fondamentale per ridurre le disuguaglianze e superare le marginalità. “La Rai deve parlare a tutto il pubblico e, di conseguenza, a tutto il Paese”.

Riorganizzazione del lavoro, formazione, innovazione tecnologica sono, secondo Riccardo Saccone, segretario nazionale Slc, le tre parole d’ordine per la Rai del futuro. Innegabile il ritardo nella risposta a una domanda di connessione che è cresciuta all’improvviso nei mesi dell’emergenza sanitaria. Secondo Digital tv Research, entro la fine del 2020 gli abbonati delle piattaforme ott e on demand raddoppieranno. Oggi sono 200 milioni in tutto il mondo, di cui 12 in Italia. L’azienda di viale Mazzini ha risposto con lentezza e con strumenti desueti. La piattaforma digitale di Ray Play avrebbe potuto riportare “a casa” gli under 35 ma, secondo Saccone, non è stato fatto abbastanza. Poco coraggio nell’innovazione, un’organizzazione verticistica e verticale, un’eccessiva dipendenza dal potere esecutivo sono, secondo il sindacato, i capestri di cui il servizio pubblico deve liberarsi, se vorrà continuare a esistere nel prossimo futuro a tinte digitali.

Troppe e troppo lontane ormai nel tempo le proposte di riforma della Rai. “Quelle che portano i nomi di Gentiloni, De Zulueta, Zaccaria hanno più di dieci anni – nota Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio – la Legge Gasparri era sbagliata allora e lo è ancora di più oggi”. Ma la più grande delle anomalie da correggere resta, per tutti, la stessa: un azionista di maggioranza che ha ancora le sembianze del Ministero dell’Economia. Ciò fa del servizio pubblico italiano un unicum nel panorama europeo. Slc, Cgil e Usigrai, che rappresenta i giornalisti interni, sostengono la proposta di affidare la gestione e il controllo a una fondazione. Un’idea studiata in maniera approfondita da Isicult, l’Istituto Italiano per l’Industria Culturale. Poco o nulla hanno fatto anche gli ultimi provvedimenti normativi (riforma Renzi) per rifondare davvero la governance del servizio radiotelevisivo, liberandola dalle pastoie della lottizzazione.

Gli interventi normativi devono procedere di pari passo con una riorganizzazione interna del lavoro e una formazione del personale. Su 12.500 dipendenti (cui si somma un intricato indotto di appalti e sub appalti) sono pochi i nativi digitali. Questi si trovano, molto più facilmente, nell’ampia rete di collaboratori occasionali che fanno vivere i palinsensti dei tre canali, alimentando un circolo vizioso e crescente di precarietà. “La rivoluzione digitale parla al mondo del lavoro- fa notare Saccone- Bisogna innescare un processo di aggiornamento delle competenze, rimescolare i perimetri professionali”.

Il Covid 19 ci lascerà un mondo totalmente diverso da quello in cui abbiamo vissuto fino a pochi mesi fa, il sistema dei media ne uscirà trasformato. Se la Rai non vuole soccombere alle piattaforme ott e ai canali on demand, deve ripensare la sua natura generalista. Tre canali sono forse troppi, se restano impostati su un vecchio modello di offerta e di fruizione. Al contempo, invece, il ruolo delle sedi regionali è tutto da potenziare: avvicinarsi al territorio uscendo dalla crisi dell’emittenza locale. Mamma Rai non va in pensione, ma si deve aggiornare.