Nel secondo dopoguerra siciliano, fra il 1944 e il 1948, i sindacalisti ed i politici socialisti o comunisti che cadono sotto i colpi della criminalità organizzata sono più di 40. Il 2 marzo del 1948 è ucciso in contrada Raffo, a Petralia Soprana in provincia di Palermo, il capolega della Federterra Epifanio Li Puma, mezzadro e socialista. Il 1° aprile viene assassinato a Camporeale, al confine tra le province di Trapani e Palermo, il segretario della Camera del lavoro Calogero Cangelosi, anch’egli socialista.

Al centro, nel tempo e nello spazio fra questi due delitti si colloca, il 10 marzo, l’assassinio di Placido Rizzotto, partigiano, socialista, segretario della Camera del lavoro di Corleone e dirigente delle lotte contadine. Sarà l’allora giovane capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa a indagare sul delitto Rizzotto: il lavoro dell’ufficiale, destinato a divenire un nome celebre nel corso dei decenni successivi, porterà all’incriminazione di Luciano Liggio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura, che tuttavia, alla fine del 1952, verranno assolti per insufficienza di prove.

Gli atti terroristici contro il movimento contadino e i suoi dirigenti cominciano con l’uccisione di Andrea Raia il 5 agosto 1944, cui fa seguito - poco più di un mese dopo, il 16 settembre - l’attentato a Girolamo Li Causi, segretario regionale del Pci, durante un comizio a Villalba, feudo di don Calò Vizzini. “Fu quello il mio primo bagno nella mafia del feudo, la mafia che aveva le terre in affitto”, ricorderà anni dopo Emanuele Macaluso, quel giorno presente. Così Eugenio Scalfari in un celebre articolo de L’Espresso ricostruirà nel 1956 il clima di quel pomeriggio: “Gli uomini del camion avrebbero voluto cominciare subito, ma non avevano messo in conto il suono delle campane: l’arciprete di Villalba, fratello di don Calogero, cominciò a suonare a distesa: impossibile parlare. Passò quasi un’ora: gli uomini aspettavano nervosi, le campane assordavano la piazza, don Calogero fumava. Finalmente il suono finì e il comizio poté cominciare”. Segretario regionale del Partito, deputato all’Assemblea costituente, senatore e vicepresidente della prima Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso, Girolamo Li Causi farà della lotta alla mafia il tratto distintivo del suo impegno politico e istituzionale.

La vicenda della strage di Portella della Ginestra, avvenuta il 1° maggio 1947 per opera della banda di Salvatore Giuliano, è da questo punto di vista emblematica. Li Causi sarà probabilmente l’uomo politico più direttamente impegnato sulla strage di Portella della Ginestra, denunciandola all’opinione pubblica e seguendone gli sviluppi. Il numero uno del Pci isolano avanzerà durissime accuse anche alle forze di polizia - denunciando i loro legami con mafiosi e separatisti - e al ministro Mario Scelba, più volte accusato di essere direttamente implicato nella vicenda. “Onorevoli colleghi, non è la prima volta che ci occupiamo della Sicilia e credo che non sarà nemmeno l’ultima”, diceva all’Assemblea costituente nella seduta del 15 luglio 1947. Aveva ragione.

Gli assalti alle Camere del lavoro della Cgil ancora unitaria, le intimidazioni e i pestaggi dei suoi dirigenti, i primi omicidi politici proseguiranno negli anni seguenti l’attentato del settembre 1944. Il 21 dicembre 1946 Nicolò Azoti viene assassinato. Il 4 gennaio 1947, a Sciacca, provincia di Agrigento, la mafia uccide davanti alla porta della sua abitazione Accursio Miraglia, segretario della locale Camera del lavoro e dirigente comunista. Il 13 febbraio 1947 a Villabate (Palermo) muore Nunzio Sansone, militante comunista impegnato nella lotta per la riforma agraria, fondatore e segretario della locale Camera del lavoro. Lo stesso giorno a Partinico, sempre in provincia di Palermo, viene ucciso Leonardo Salvia, anch’egli in prima fila nelle lotte per la distribuzione delle terre. Un tributo di sangue che continua anche negli anni successivi, con l’uccisione, tra gli altri, di Salvatore Carnevale il 16 maggio 1955, Vincenzo Di Salvo il 17 marzo 1958, Pio La Torre il 30 aprile 1982.

“Non sono in molti a ricordarlo - raccontava Emanuele Macaluso, segretario generale della Cgil Sicilia dal 1947 al 1956, in una bella intervista rilasciataci proprio in occasione del 70° anniversario di Portella della Ginestra - ma dall’inizio del 1947 e fino a prima dell’attentato erano stati ammazzati già tre sindacalisti: tutti uomini di valore, dirigenti e militanti del calibro di Accursio Miraglia, Pietro Macchiarella, Nunzio Sansone. Anche se va detto che le intimidazioni, quando non addirittura gli atti terroristici contro il movimento sindacale e i suoi leader erano cominciati nell’immediato dopoguerra, con l’attentato del 16 settembre ’44 a Girolamo Li Causi, all’epoca segretario del Pci siciliano, avvenuto durante un comizio a Villalba. Quel giorno io mi salvai per miracolo: ero al suo fianco e ricordo per filo e per segno gli attimi che fecero seguito alla sparatoria scatenata dagli uomini di don Calogero Vizzini, dove risultarono ferite 14 persone e in occasione della quale lo stesso Li Causi fu colpito a una gamba, un fatto che lo renderà claudicante per il resto della sua vita”.

Alla constatazione degli intervistatori: “A cadere sotto i colpi della mafia erano soprattutto sindacalisti della Cgil…”, Macaluso rispondeva: “Esclusivamente della Cgil! unitaria fino al 1948, della Cgil post-scissione in seguito. Andrea Raja, Gaetano Guarino, Nicolò Azoti, erano tutti sindacalisti della Cgil e, in particolare, dirigenti del movimento contadino e bracciantile. E del resto furono compiuti soprattutto tra i capi delle lotte per la terra i primi omicidi della criminalità organizzata agli inizi del Novecento, da Luciano Nicoletti a Bernardino Verro, e nel tragico marzo-aprile del 1948, con gli efferati assassini di Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto e Calogero Cangelosi”. “Quale era il nostro convincimento? - affermava ancora l’ex direttore de l’Unità in risposta ad una nostra domanda - Che era un prezzo da pagare…” (Guarda la video intervista).

Un prezzo che in tanti - troppi! - hanno pagato e continuano direttamente o indirettamente ancora oggi a pagare. Noi non dimentichiamo. Perché “fare memoria - diceva don Ciotti - è un dovere che sentiamo di dover rendere a quanti sono stati uccisi per mano delle mafie, un impegno verso i familiari delle vittime, verso la società tutta, ma prima ancora verso le nostre coscienze di cittadini, di laici e di cristiani, di uomini e donne che vivono il proprio tempo senza rassegnazione”.