Le notizie dell’arresto di Benito Mussolini e della formazione del Governo Badoglio il 25 luglio 1943 sono accolte in tutt’Italia con manifestazioni di giubilo. Il Paese scende in piazza divellendo i simboli del vecchio regime ed inneggiando alla democrazia e alla pace. Da Casa Cervi parte uno degli eventi spontanei più originali, con una grande pastasciutta offerta a tutto il paese distribuita in piazza a Campegine dalla famiglia per festeggiare, come disse papà Cervi, il “più bel funerale del fascismo”.

A raccontare quella prima pasta antifascista condita con burro e formaggio è lo stesso Alcide Cervi nel suo libro, pubblicato nel 1955 e tradotto in 9 paesi, I miei sette figli: “Il 25 luglio eravamo sui campi e non avevamo sentito la radio. Vengono degli amici e ci dicono che il fascismo è caduto, che Mussolini è in galera. È festa per tutti”, scrive papà Cervi. È Aldo, il terzogenito, che gli fa la proposta. “Papà - gli dice - offriamo una pastasciutta a tutto il paese”. Alcide accetta. “Facciamo vari quintali di pastasciutta insieme alle altre famiglie. Le donne si mobilitano nelle case intorno alle caldaie, c’è un grande assaggiare la cottura, e il bollore suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore. Guardavo i miei ragazzi che saltavano e baciavano le putele e dicevo: - Beati loro, sono giovani e vivranno in democrazia, vedranno lo Stato del popolo. Io sono vecchio e per me questa è l’ultima domenica”.

Di lì a cinque mesi i suoi 7 ragazzi avrebbero invece perso la vita fucilati dai fascisti, esposti alle rappresaglie delle camicie nere probabilmente anche per colpa di quella pastasciutta più potente di un manifesto politico. Il più piccolo, Ettore, aveva 22 anni, il più grande, Gelindo, ne aveva 42. La mattina del 28 dicembre i sette fratelli vengono condotti al Poligono di tiro di Reggio Emilia e fucilati. Tutti. Una famiglia esemplare, partigiana, quella che ha pagato il più alto tributo di sangue alla furia fascista. Il papà Alcide, loro compagno di cella fino a quel 28 dicembre 1943, rimarrà prigioniero fino al gennaio dell’anno seguente, quando il carcere verrà bombardato dagli alleati. Tornato a casa, rimarrà ignaro di quello che era accaduto ai suoi figli per tutti i giorni della sua convalescenza.

“Dopo che avevo saputo - dirà - mi venne un grande rimorso. Non avevo capito niente e li avevo salutati con la mano, l’ultima volta, speranzoso che andavano al processo e gliela avrebbero fatta ai fascisti, loro così in gamba e pieni di stratagemmi. E invece andavano a morire. Loro sapevano, ma hanno voluto lasciarmi l’illusione, e mi hanno salutato sorridendo; con quel sorriso mi davano l’ultimo addio”. Venuto a sapere dell’eccidio, papà Cervi riuscirà a ritrovare le tombe dei sette ragazzi solo tempo dopo.

Dirà il giorno dei funerali - che si svolgeranno il 25 ottobre del 1945, quasi due anni dopo la loro morte - “Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti (…) I miei figli hanno sempre saputo che c’era da morire per quello che facevano e l’hanno continuato a fare, come anche il sole fa l’arco suo e non si ferma davanti alla notte. Così lo sapevano i tanti partigiani morti, e non si sono fermati davanti alla morte. E ora essi sono con noi in questa terra di Emilia dove le viti si abbracciano alle tombe, dove un lume e un marmo è la semente di ogni campo, la luce di ogni strada”.

“Ho raccontato la storia della famiglia e mia - diceva nelle conclusioni al suo libro - come il cuore ha saputo. L’ho raccontata e mi è costato fatica e dolore, ma avevo uno scopo. Dirle queste cose a tutti i padri di famiglia italiani che vivono di stenti e di sopportazioni, che invecchiano di lavoro per fare i figli grandi e contenti dei padri. Dirle prima di tutto ai vecchi come me, che sono stati traditi tutta la vita dai padroni, dai governi e dalle guerre, e adesso si ritrovano come a vent’anni senza lavoro e soldi, senza un sigaro da fumare, senza pensione o con cinquemila lire al mese, e con tanta voglia di morire per non avere più bisogno di mangiare e chiedere. Ai vecchi braccianti dell’Italia affamata di terra e di lavoro, che per tutta la vita sono stati zappe e badili che si prendono in affitto solo qualche mese all’anno, e per il resto devono inventare mestieri quando l’inventano, per resistere fino all’altra stagione. Ai fratelli contadini poveri del Mezzogiorno, che col sangue e la lotta hanno fatto più grande la bandiera rossa. Ai mezzadri compagni miei che i padroni gli rubano metà del raccolto, e loro danno all’Italia solo ignoranza e tradimento. Agli impiegati degli uffici che sanno come va male lo Stato e chi sperpera i soldi, mentre loro devono fare lavori in più e stanno sempre con la paura che nascono figli. Agli intellettuali che non possono creare l’utile, perché oggi la cultura che frutta è quella per l’inganno e la guerra, e i maestri non hanno lavoro e gli analfabeti non hanno maestri. Agli operai licenziati d’Italia, che potrebbero salvare lo Stato con l’intelligenza e l’onestà, e non riescono a salvare i figli dalla fame e dalle malattie".

"A voi tutti, dico - prosegui papà Cervi -: rifate come ho fatto io la storia della vostra famiglia, e vedrete che dicono tutte la stessa cosa. Perché la natura grida forte che cosa bisogna fare, la società pure, ma gli uomini ancora tutti non capiscono e si fanno il male con le mani loro. (…) A casa mia ho raccolto più di ottanta prigionieri, per lo più inglesi e americani, venivano stracciati e con i pidocchi, certi in mutandine, e ritornavano via puliti, vestiti, ingrassati. Le nostre donne lavoravano fino all’una di notte per preparargli i vestiti e le camicie, compravano perfino i polli per dare la carne fina ai feriti e agli ammalati, quando c’erano rimaste solo le galline da uova. Sette figli hanno pagato per queste opere di bene, e la madre se ne è andata con loro per crepacuore.  (…) Quando mi dissero della morte dei figli, risposi: dopo un raccolto ne viene un altro. Ma il raccolto non viene da sé, bisogna coltivare e faticare, perché non vada a male. Avevo cresciuto sette figli, adesso bisognava tirar su undici nipoti. Dovevano prendere ognuno il posto dei padri, e bisognava insegnare tutto da capo. Quando tornai dal carcere due mesi dopo nacque il terzo figlio di Gelindo, e gli mettemmo il nome del padre. Questo dunque era il più piccolo e la più grande aveva dieci anni, Maria, figlia di Antenore e di Margherita. Erano piccoli, perciò, ma io gli insegnai lo stesso".

Il suo monito è struggente eppure sempre lucido: "Guardate la mia famiglia: avevo sette figli, e ora ho undici nipoti. Avevamo quattro mucche, e adesso sono 54 capi di bestiame, con la produzione del grano che è salita a cinque volte quella del ‘35. Eravamo mezzadri, pieni di debiti, e adesso abbiamo ancora debiti da scontare per trent’anni, ma il fondo è dei nipoti e delle nuore. Non faranno più San Martino. E quando c’è da ascoltare il padrone per fare qualche miglioria, si riunisce il consiglio di famiglia e quello che decide è ben fatto. In più, abbiamo dato sette vite alla patria. Se c’è bisogno di dare ancora la vita, i Cervi sono pronti, e qualcuno pure sopravvivrà, e rimetterà tutto in piedi, meglio di prima. Ecco perché non ci fermeranno più. (…) Che il cielo si schiarisca, che sull’Italia torni la pace e la concordia, che i nostri morti ispirino i vivi, che il loro sacrificio scavi profondo nel cuore della terra e degli uomini. Allora sì, mi sarò guadagnato la mia morte, e potrò dire alla madre dolce e affettuosa, alla sposa mia adorata: la terra non è più come quando tu c’eri, sulla terra si può vivere, e non solo morire di crepacuore. E ai figli, dirò: l’Italia vostra è salva, riposate in pace, figli miei”.