Chiara Fiorelli da febbraio, appena in tempo si direbbe, è docente a contratto alla Sapienza di Roma: studia scienze politiche e si occupa di partiti politici e leadership. Il suo percorso è simile a quello di tanti altri suoi colleghi: dopo la laurea un dottorato, poi un assegno di ricerca a Bologna e ora docente a contratto, che è poi il contingente più numeroso dei precari nelle università italiane: in tutto 27.000, quasi come i professori ordinari e associati che sono a quota 30.000. Un docente a contratto fa tutto: ricerca, esami, segue le tesi. Ma non è stabile: una situazione che in una fase come quella che stanno vivendo le università a seguito dell’emergenza sanitaria pesa sempre di più.


“Il mio contratto scade a gennaio 2021 – racconta Fiorelli –; poi non so cosa succederà, l’incertezza è totale e questo a prescindere dalla pandemia”. Come se non bastasse, il pagamento arriva solo a fine contratto: in mezzo bisogna arrangiarsi. “L’unico aspetto positivo di questa situazione di emergenza è che stando a casa e abitando io a Bologna risparmio sugli spostamenti e l’alloggio, per i quali larga parte del guadagno se ne sarebbe andata”.

I precari stabili delle università italiane
Quella di Chiara è solo una delle tantissime storie che si potrebbero raccontare: quelle di un’università italiana che da anni si regge sui precari. Nell’anno accademico in corso i docenti “strutturati” sono 51.013, i precari 65.715. Si tratta di un trend che va avanti da tempo, se è vero che negli ultimi 10 anni il personale a tempo indeterminato ha subito una contrazione del 20 per cento, in crescita soprattutto negli ultimi tre anni. Dire precari però non basta, perché all’interno di questa casella le condizioni sono le più diverse, frutto di fantasie "reclutatorie" con le quali gli atenei hanno cercato di rispondere negli anni alle sempre minori risorse a disposizione: ricercatori a tempo determinato di tipo A e B, borsisti, assegnisti di ricerca, professori a progetto. Un mosaico le cui tessere hanno tutele, retribuzioni e possibilità di carriera molto diverse tra di loro.

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“In questa fase – racconta Barbara Gruning, ricercatrice senior a Milano Bicocca, molto attiva nel mondo del precariato – questa frammentarietà pesa ancor di più. Anche i tentativi che il governo ha fatto nel Cura Italia e nel decreto rilancio per salvaguardare i precari si scontrano con le specificità delle singole situazioni. Magari si interviene sulle figure più visibili e si fa meno per le altre e questo spesso accade perché il precariato universitario lo si conosce poco. Anche l’attività sindacale è complicata: i contatti tra i colleghi sono più difficili, difficile intervenire e aiutare chi magari ha perso il proprio contratto e ora non ha più nulla”.

Su queste categorie di docenti e ricercatori, la pandemia ha dunque inciso ovviamente in modo pesante, mettendo però a nudo fragilità e debolezze già presenti ormai purtroppo quasi storicamente. È evidente che dover interrompere relazioni, frequentazioni di biblioteche e laboratori, attività convegnistiche può rappresentare uno stop serio alla propria attività di ricerca e dunque alle possibilità di stabilizzazione. Così come ulteriore incertezza induce la mancata certezza sulle date dei prossimi concorsi e anche la possibilità di pubblicare – fondamentale per i concorsi – diventa molto problematica in questa situazione.

E le ripercussioni sono anche sul piano finanziario: l’ateneo di Padova, ad esempio, ha sospeso gli assegni di ricerca per “cause di forza maggiore”.

Incertezza si somma dunque a incertezza: “Viviamo in un tempo sospeso – riprende Fiorelli con amarezza –, tutto sembra fermo: incontri, convegni, occasioni di confronto. Da casa continuo a lavorare, ma in questo modo vengono meno quei contatti, quelle relazioni, quei network di idee che sono indispensabili per un precario che vuole intraprendere un percorso di carriera”. Insomma: “Così diventa tutto più difficile, ti senti ancora più solo, l’atomizzazione si fa sentire ancora di più”. Piccola nota positiva: “Con le lezioni a distanza, il mio corso ha raddoppiato gli studenti che frequentano, molti dei quali non potevano partecipare in presenza”.

La pandemia non ha cambiato molto
Marco Marrone fa parte di un’altra categoria precaria molto rappresentata nelle nostre università, quella degli assegnisti di ricerca. Lavora a Bologna e si occupa di Sociologia del lavoro. Anche il suo è un percorso classico: dottorato concluso nel 2018, è ora al terzo anno di assegno (dopo due anni a Venezia). L’assegno scade a dicembre, “poi proprio non so cosa accadrà, cercherò di vedere come procedere, magari per provare a prendere l’abilitazione nazionale. Nel frattempo si tratterà di sbarcare il lunario, magari facendo il rider. Non escludo nulla”. Lavorare a distanza non ha rappresentato in realtà un grande cambiamento: “Smart working, allungamento dei tempi di lavoro, debolezza dei vincoli contrattuali e delle protezioni: sono tutte cose che noi precari già conoscevamo da prima del virus; anzi, direi che su di noi sono state fatte le prove generali di queste modalità”. È ovvio tuttavia, anche per Marrone, che “quella che stiamo vivendo rappresenta un’ulteriore individualizzazione delle nostre vite lavorative: non rimpiango le miriade di convegni, ma certo in un’università già parcellizzata questo è un ulteriore passo in quella direzione”.

Il progetto di ricerca che coinvolge il giovane studioso è europeo, ha subito dei rallentamenti ma prosegue: “Durante la pandemia dal rettore sono arrivati messaggi all’insegna di gloriosi e autocelebrativi ‘andiamo avanti’. Credo che l’emergenza abbia accentuato un po’ questa competizione tra le università che è fenomeno degli ultimi anni, mentre per me dovrebbe accadere proprio il contrario”. La pandemia “ha rivelato quale considerazione della conoscenza ha la nostra società. Università e scuola ci interessano se sono funzionali a tenere in piedi l’economia, altrimenti no. E anche il ruolo dei precari da questo punto di vista interessa ben poco”.

Poco spazio, poca rappresentanza
Paolo Burgio, dottorato a Bologna e Francia, è ora ricercatore di tipo A all’università di Modena. I ricercatori di tipo A, a differenza di quelli di tipo B, non godono della tenure track, cioè di quel meccanismo (definito dalla legge 240 del 2010) che di fatto consente di diventare professori associati dopo aver ottenuto l’abilitazione scientifica nazionale. Burgio lavora in un laboratorio scientifico all’avanguardia (High-Performance Real-Time Lab) con 50 studiosi anche molto giovani che, tra le altre cose, fa ricerca sulle automobili a guida autonoma, un terreno ad alto tasso di innovazione anche perché strettamente collegato al tema delle smart city e della sostenibilità.

“Lavoravo in Francia – racconta – e sono tornato in Italia. Ma tra due anni il mio progetto finisce e per come funziona l’università è difficile che io possa trovare una possibilità di carriera. Svolgo attività prevalentemente tecniche, di gestione progetto, per cui mi rimane veramente poco tempo per fare quelle pubblicazioni che servono per i concorsi. Solo lo scorso anno ho portato al laboratorio e al dipartimento qualche milione di euro grazie a progetti europei, regionali e industriali: ma questo ai fini della carriera non sembra contare. In ogni caso per chi fa queste cose le possibilità di ricerca nel privato non mancano”.

In tempo di pandemia, l’attività didattica e quella del laboratorio è andata avanti: “Siamo perfettamente autogestiti, il dipartimento ci lascia parecchia libertà su come svolgere le attività in sicurezza, da casa. Lavoriamo in tutta sicurezza con sistemi server e chat usiamo tanti, strumenti collaborativi e teniamo tutti gli studenti in rete”.

I limiti però sono quelli di sempre, di chi sta nell’università da precario: “Non abbiamo copertura sindacale, nessuna rappresentanza – sottolinea Burgio –. Abbiamo tentato di costruire un gruppo di ricercatori privati, ma non ce l’abbiamo fatta. Troppe le resistenze. È perfino successo che, quando lamentavo di lavorare troppo e nei weekend, alcune persone 'ai piani alti' mi abbiano riso in faccia, e dato dello 'zerbino'”.

Tutele a macchia di leopardo
I decreti Cura Italia e Rilancio hanno tentato di fare qualcosa per aumentare le tutele di questi importanti lavoratori della conoscenza. Ma i risultati non sono affatto soddisfacenti, soprattutto alla luce dell’investimento previsto di 1,4 miliardi di euro.

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“Per gli assegnisti di ricerca che lavorano a progetto – spiega Tito Russo, della segretaria della Flc Roma e Lazio – è prevista la possibilità di una proroga ma solo su fondi di ateneo, il che, considerando lo stato delle casse delle singole università, di fatto significa che non ci saranno. Anche per i dottorandi di ricerca c’è possibilità di proroga, ma solo per quelli dell’ultimo anno”. A tutto questo si aggiunge la beffa dell’impossibilità di prorogare l’indennità Dis-Coll per coloro i quali hanno concluso il dottorato. La spiegazione del perché è molto tecnica, ma utile per capire lo stato di confusione attuale: come ogni altra indennità di disoccupazione o prestazione viene versata per legge a partire dall’ottavo giorno successivo alla conclusione del proprio contratto di lavoro. Tuttavia, l’art. 92 del dl Rilancio dispone la proroga per “le prestazioni ... il cui periodo di fruizione termini nel periodo compreso tra il 1° marzo 2020 e il 30 aprile 2020”.

Questo significa che il provvedimento di fatto taglia fuori tutte e tutti i dottori di ricerca dell'ultimo ciclo, che hanno necessariamente iniziato a percepire la Dis-Coll l’8 Novembre 2019 (8 giorni dopo la cessazione del contratto) e che di conseguenza ne terminano la fruizione l’8 maggio 2020. Otto giorni di differenza che lasciano, in un momento di estrema difficoltà come quello dell’emergenza Covid-19, senza nessun ammortizzatore sociale o copertura di altro tipo migliaia di persone.

Resta poi il tema dei temi: quello dell’eccessivo numero dei precari che lavorano negli atenei. Qualcosa è stato fatto. Tra mille prororoghe e decreto rilancio verranno assunti 4.940 ricercatori di tipo B: “Ma non basta – conclude Russo –. Chiediamo un piano straordinario di 20.000 assunzioni in 4 anni. Questa, dunque, rappresenta solo una prima tranche”.