Si fa presto a dire smart working. Si fa prima a dire sfruttamento da casa della manodopera, soprattutto femminile. In queste settimane tantissime aziende hanno attivato lo smart working per far fronte all’emergenza sanitaria e moltissimi lavoratori stanno regolarmente svolgendo il proprio lavoro stando “comodamente” a casa, grazie allo sviluppo delle infrastrutture digitali. In una situazione di emergenza questa scelta sta di fatto rappresentando un’ancora di salvezza per molti settori riuscendo anche a garantire servizi ai clienti/utenti nonché al territorio. Da quando è stata imposta la quarantena, coorti di lavoratrici dei servizi (insegnanti, bancarie, impiegate in amministrazioni pubbliche e private) hanno dovuto trasferire il proprio lavoro a casa, sommando al già pesante lavoro di cura per la famiglia e per i figli il lavoro retribuito, quello contrattualizzato.

Il ricorso al cosiddetto smart working ha prodotto una specie di cambio negativo di paradigma rispetto al lavoro più tradizionale, perché non è stato accompagnato dal controllo sulle variabili che definiscono la correttezza dell’uso della manodopera. Quante ore sono state lavorate in queste settimane di quarantena? Quanta flessibilità negativa è stata reintrodotta nel sistema? Chi l’ha controllata? A quale costo e con quale prospettiva? Ad un costo altissimo per il lavoratore e ancora di più per le lavoratrici, che hanno di fatto smarrito la linea di confine tra sfera privata e sfera pubblica, intensificando i tempi e i ritmi di lavoro, subendo una brusca invasione di campo sul tempo libero a fronte invece delle imprese che hanno ridotto notevolmente i costi legati alla presenza di personale in azienda, eludendo del tutto anche il tema della salute e della sicurezza sul lavoro. Inizia ad essere ridondante l'associazione che alcune imprese fanno tra smart working e benessere sociale. Sono stati sospesi i controlli, perché controllare a casa, in Italia, è impossibile e perché ogni impresa, ogni ufficio, si è organizzato per proprio conto senza un indirizzo nazionale preciso.

A peggiorare questa condizione di superlavoro, il ricorso alle ferie forzate e a una cassa integrazione dentro le quali si è nascosto il lavoro, quello nero, o strane forme di formazione a distanza per lavoratori imposte dalle aziende più grandi: banche, finanziarie, assicurazioni, case farmaceutiche, piattaforme logistiche che hanno ottimizzato (a loro dire) i tempi sottoponendo la manodopera in smart working a corsi di formazione finalizzati all’ottimizzazione dei risultati. Sono conseguentemente aumentate le richieste di prestazioni, perché si è presunto che lavorando a casa si è più rilassati e più disponibili a sottoporsi alla volontà datoriale. La ricaduta sulla manodopera femminile è più pesante anche in termini psicologici: perché la donna difficilmente vede la casa come un luogo di relax, mentre andare a lavorare fuori casa è una forma di libertà acquisita. Il lavoro domestico e quello extradomestico si stanno letteralmente fondendo, e una donna può passare senza soluzione di continuità da una tastiera al pannolino o ai fornelli.

Questo è un oggettivo tradimento dei contratti che non può e non deve diventare regola. Chi pensa di poterla imporre, magari per decreto e senza dibattito parlamentare (com’è purtroppo prassi di queste settimane), dovrebbe preoccuparsi di introdurre un alleggerimento domiciliare del lavoro di cura delle donne (come in Francia) e un forte aumento salariale determinato da due fattori: il risparmio delle imprese che non ricevono più i lavoratori in sede; il disagio prodotto ai lavoratori a casa. Vogliamo dire con estrema chiarezza che lo smart working è soprattutto una rinuncia per il lavoratore e lo è ancora di più per le donne lavoratrici. Rinuncia alla partecipazione, alla socialità professionale il cui valore non è quantificabile in termini di costo e di rinuncia della propria identità professionale. Il sindacato e la società hanno certamente voglia di approcciarsi a forme nuove di organizzazione del lavoro a partire anche dalla necessità di ripensare lo strumento della cassa integrazione che andrebbe modulata ad ore, con verifiche e aggiornamenti settimanali o mensili, ma a monte deve prodursi una discussione seria che si fondi su pochi ma essenziali elementi.

Lo smart working deve attivarsi su base volontaria, deve prevedere un salario più alto e servizi di assistenza domiciliare (come le baby sitter per chi ha figli), benefit concordati a livello aziendale e territoriale con le parti sociali e quelle istituzionali: tutto questo deve essere materia di contrattazione. Solo in questo modo sarà possibile parlare ancora di lavoro. Andare a lavorare è un pezzo importante della nostra vita, della nostra identità e della libertà di essere nella società. Vale per tutti, anche per gli insegnanti che si trovano a dover affrontare una reimpostazione didattica con strumenti disomogenei e tradendo parte dello statuto costituzionale del sistema dell’Istruzione. Allora attenzione a pontificare sullo smart working all’italiana: si è già trasformato in uno strumento per massimizzare l’intensità del lavoro (lo sfruttamento), minimizzare i costi fissi (della rete, delle utenze negli uffici, della vigilanza, eccetera): per far gravare tutto o quasi sui lavoratori e sulle lavoratrici.

Gigia Bucci è il segretario generale Cgil Bari
Leonardo Palmisano è un sociologo e presidente Radici Future Soc. Coop.