“Sono a casa con il coronavirus”. Silvia Bresciani è un’operatrice socio sanitaria all’ospedale privato accreditato Humanitas di Bergamo, riconvertito covid. “Per fortuna non ho sintomi gravi”. Vi siete ammalati in tanti? “È come se facessimo a turno. C’è chi rientra e c’è chi esce, ma su circa 600 dipendenti quasi tutti alla fine siamo stati colpiti, in un modo o nell’altro. Considerando anche gli asintomatici e i tanti che hanno perso parenti e amici. Per questo abbiamo insistito, fin dall’inizio, nel richiedere i dispositivi di protezione individuale”. Silvia è delegata sindacale della Fp Cgil e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Sa bene di cosa parla quando ci dice che nella struttura nella quale lavora i dpi, quelli veri, sono arrivati solo il 12 marzo, il suo ultimo giorno, prima che accusasse i sintomi e si mettesse in quarantena. “Prima di quella data ci siamo arrangiati con dei dpi di fatto insufficienti. Il 12 marzo ci hanno fornito quelli più corretti. Si sarebbe dovuto e potuto cambiare rotta prima. Noi, già all’inizio dello scorso mese, abbiamo denunciato lo stato delle cose”. Qual era? “Le mascherine non si portavano. Un giorno le davano a tutti, il giorno dopo a nessuno. Non scorderò mai il commento che mi rivolse il diabetologo: ‘qui mi sembra che ogni giorno si cambi idea’. All’inizio di aprile è morto. Di coronavirus”. E i pazienti? “Anche loro, in quei giorni, entravano senza mascherina. È stata evidente la fatica, da parte nostra, a recepire alcune regole. E allo stesso tempo lo è stata quella della direzione a imporle. Anche perché le forniture in partenza erano scarse. Quando tutto è iniziato avevamo a disposizione poche mascherine e pochi camici. Lo stretto indispensabile. Quello di cui potevamo aver bisogno in tempi normali. Il problema è che di pazienti ne sono arrivati tantissimi in pochi giorni. E reperire i dpi sul mercato era difficilissimo”. 

Eccoli i lavoratori della sanità privata accreditata. Anche loro, come i colleghi del pubblico, sono in prima linea nell’emergenza coronavirus. Alle prese con le carenze note e con l’onda d’urto devastante della pandemia. Con una differenza. Il loro contratto è fermo da 14 anni. Il loro stipendio, a parità di mansioni e di rischi, è più basso. La loro parte normativa carente. La progressione di carriera lentissima. Una condizione grave fino all’altro ieri. Oggi, con lo spettro del virus dietro a ogni turno di lavoro, inaccettabile. Che rischia di essere aggravata da un’altra discriminazione. Un riconoscimento al personale impegnato in questa lotta e stabilito dal Cura Italia. Ma, ancora una volta, solo per la sanità pubblica. “Il problema – ci spiega Barbara Francavilla, segretaria nazionale della Fp Cgil – resta per i lavoratori della sanità privata, che pure stanno contribuendo allo sforzo, a rischio della propria vita. Perché per loro questo premio non c’è. Le regioni possono applicare l’accordo a tutte le aziende pubbliche, ma non possono farlo con i piccoli e grandi imprenditori della sanità privata. Qui ci si muove a macchia di leopardo. E i player principali sono avvantaggiati. C’è il gruppo San Donato, ad esempio, che ha deciso unilateralmente di dare ai propri dipendenti un premio. Con le piccole realtà tutto diventa più complicato”. E allora torniamo a Bergamo da Silvia che sulla questione del rinnovo atteso da quasi quindici anni non ha più parole. “Lo Stato, la Regione e l’Aiop ci chiamano eroi. Eppure non ci hanno mai riconosciuto il diritto a rinnovare il contratto. Anzi, ora dicono che sono in difficoltà più di prima. Chissà quando si firmerà questo contratto, visto che ancora non si capisce bene chi pagherà tutte queste prestazioni andate in covid. Come verranno rimborsate dallo Stato? Prima il budget era certo. Ad esempio, Humanitas viaggiava su circa 14 milioni di utile tra il privato e il servizio sanitario nazionale. Adesso entrambi sono fermi completamente”.

Per capire la situazione, basta allungare gli occhi su due regioni. Per iniziare restiamo in Lombardia. “Qui la sanità privata vale il 38 percento della produzione regionale e in questo momento è direttamente impegnata nella gestione dell’emergenza”. A ricucire la storia recente, piuttosto ingarbugliata, è Gilberto Creston, della segreteria lombarda della Fp Cgil. Come sono state impegnate le strutture private sul covid? “All’inizio, alcuni istituti hanno accolto pazienti non covid da aziende pubbliche. E, su richiesta di queste, hanno dato in prestito alcune figure professionali, in primis anestesisti e rianimatori. Soprattutto a Lodi e Codogno. Dopo questa prima fase, quasi tutte le aziende della sanità privata e accreditata hanno cominciato ad operare sul covid, mettendo a disposizione tutti i letti di terapia intensiva, creandone di nuovi e trasformando tutti gli spazi possibili. A parte qualche caso di patologie cardiologiche od oncologiche, tutto è stato destinato a covid”. Con quale contropartita? “Questo è tuttora in sospeso. Le associazioni datoriali, Aris Aiop e Confindustria, sono in contatto con la Regione per quel che attiene le retribuzioni di pazienti covid. Allo stato attuale è tutto indeterminato, anche perché ci sono elementi di carattere nazionale ai quali ci si dovrà raccordare. A partire dal Cura Italia che dovrebbe essere approvato il 22 aprile. Regione Lombardia aveva inizialmente garantito alle strutture private una parte del budget già programmato. I provvedimenti del governo dovrebbero abbassare di poco queste remunerazioni, lasciando però margini di decisione alle singole regioni. Considerando che molte delle attività sulle quali lavorano queste strutture sono state sospese e che i casi di pazienti covid meno gravi o in remissione hanno comunque bisogno dell’assistenza di medici, infermieri, operatori socio sanitari, specialisti. Che la durata dei ricoveri è molto lunga mediamente, anche tre o quattro settimane. E che i farmaci necessari sono tanti e molto costosi”.

Una situazione complicata che riscontriamo anche nel Lazio. A guidarci è Giulia Musto, funzionaria della Fp Cgil capitolina. Anche qui una serie di strutture sono state riconvertite e hanno preso pazienti covid di tre livelli di gravità: terapia intensiva, malati meno gravi e asintomatici o in attesa dell’ultimo tampone negativo per poter fare ritorno a casa. Anche qui, al fine di alleggerire il flusso negli ospedali pubblici, è stato chiesto di prendere pazienti con altre patologie. “Quindi ci siamo ritrovati ad operare in strutture la cui organizzazione è stata mutata dalla sera alla mattina. Questo ha fatto sì che molte strutture fossero impreparate, carenti nella fornitura dei corretti dpi e in difficoltà a reperirli. Così nella prima fase abbiamo dovuto gestire l’emergenza del lavoro non in sicurezza. E abbiamo anche una diffusione di contagi di operatori in alcune strutture”. Come funziona nel Lazio il pagamento delle prestazioni legate al coronavirus? “Non ti so dire gli importi. È  chiaro che prenderanno una funzione covid, un forfettario, a seconda delle tipologie, perché una terapia intensiva costa di più di uno in attesa di tampone negativo. Immaginiamo girino belle cifre. Non è volontariato. Oggi non abbiamo capito quanto. Immaginiamo che non facciano niente per niente”. E il nuovo contratto? Arriverà? “Difficile fare previsioni. Noi ce la metteremo tutta. Chiamano eroi gli infermieri, ma poi si va in prima linea pagati due lire. Certo, il contratto prevede indennità di rischio, ma in realtà non l’abbiamo neanche discusso e, se ci riusciamo, vorremmo alzarle”. E poi, anche nel Lazio, c’è tutta la questione delle rsa. “Il contratto di riferimento dei dipendenti di quelle strutture – ci spiega Giulia Musto – è quello peggiore. Noi lo definiamo pirata: meno tutele, meno diritti, meno salario”. 

Ma qual è la differenza di salario tra pubblico e privato? “Per fare un esempio, tra due infermieri, a parità di livello, parliamo di almeno 150 euro al mese. Un’ingiustizia che, in questi tempi difficili, ha acceso gli animi e ha moltiplicato la spinta dei lavoratori a chiedere che gli venga rinnovato il contratto. È evidente che si sentono ancora più sfruttati. Stanno in prima linea, li chiamano eroi, però di fatto hanno zero riconoscimenti. In più il lavoro è faticoso, i pazienti sono gravi, i dispositivi di protezione sono durissimi da sopportare. E Al ritorno a casa devono di fatto vivere in isolamento. Spesso, nei centri piccoli in cui tutti conoscono tutti, al personale sanitario viene di fatto vietato l’accesso in banca o alla posta o al supermercato. Tutto concorre a esacerbare gli animi. Anche il fatto che il pubblico sta chiamando dalle graduatorie molti infermieri del settore privato che hanno vinto i concorsi e così molte strutture con organici già ridotti all’osso si stanno svuotando. Senza contare il personale contagiato”.

Dalla Lombardia al Lazio, dall’occhio del ciclone in giù, di motivi per pretendere il rinnovo del contratto ce ne sarebbero. Ma la trattativa a che punto è? Lo chiediamo a Barbara Francavilla che ci spiega che l’ultima di una serie di mosse, già in piena pandemia, i sindacati di categoria l’hanno fatta il 31 marzo, reiterando con forza la richiesta di riaprire il tavolo. Questa volta rivolgendosi a tutti gli attori in campo: il ministro Speranza, la conferenza Stato Regioni, le controparti datoriali, Aris e Aiop. La segretaria nazionale della Fp Cgil è sposata con un infermiere. Che di questi tempi torna a casa con i solchi profondi della mascherina calata sul volto per dodici ore di turno. Anche lei, come abbiamo già sentito dire a molti dei nostri interlocutori, ci tiene a dire di smetterla con la retorica vuota. “Non chiamateli eroi questi lavoratori. C’erano prima del coronavirus e ci saranno anche dopo. Al pari del loro impegno, della loro fatica, della loro umanità e dei rischi del loro lavoro. Non serve chiamarli eroi, serve aiutarli concretamente, rinnovando i loro contratti, dando loro i giusti riconoscimenti professionali e prendendo decisioni oculate rispetto alla fase 2 e ai tempi della ripresa delle attività, per evitare un altro picco di contagi che sarebbe terribile per il Paese”.

Il nostro racconto finisce a Bergamo, dove cerchiamo conferma delle fibrillazioni della categoria dei lavoratori della sanità privata accreditata. Un’altra rsu dell’Humanitas che preferisce l’anonimato ci racconta come fin dall’inizio del ciclone covid i delegati sindacali abbiano fatto proposte, al fine di limitare il contagio tra il personale sanitario. Tutte puntualmente bocciate. “Noi – ci dice con molta delusione – siamo il popolo bue che deve eseguire e prendere ordini dai sedicenti scienziati. I problemi ci sono stati anche qui. E grossi. I malati sono arrivati in tanti e noi lavoratori abbiamo pagato un prezzo altissimo. Eppure ad oggi io non ho mai fatto un tampone. Per questo chiediamo almeno il nuovo test veloce per capire se si è immuni. Altrimenti rischiamo di ripartire con il cavallo di ritorno. Tutti noi dobbiamo essere certi che non siamo positivi. Sennò non ci si muove più”. Il pensiero è ancorato nel presente e nel prossimo futuro. Ma lo sguardo è rivolto al recente passato, a quello che è stato il drammatico marzo di Bergamo. “L’ospedale riconvertito in meno di due giorni. Tutti i reparti destinati al covid. Il personale che si è fatto in quattro per garantire il massimo dell’assistenza. E quella mancanza imperdonabile, perché se avessero chiuso la Val Seriana, se l’avessero dichiarata zona rossa, se avessero isolato Alzano, tanti morti probabilmente si sarebbero evitati”.

“Le persone morte da sole, rincuorate dagli infermieri”. È l’immagine che difficilmente potrà scordare Silvia Bresciani. Con la sua voce al telefono, mentre è a casa, positiva al coronavirus, chiudiamo la nostra cronaca. “All’inizio neanche il personale ha capito più niente, non avevano il tempo di seguire tutti. E sono stati tanti, troppi i decessi in reparto. Le bare aumentavano nella tenda che era stata montata apposta per sistemarle. I parenti arrivavano, ma non potevano neanche vedere il corpo, dare un ultimo saluto, un ultimo sguardo al volto del proprio congiunto. Ritiravano la busta con gli effetti personali e se ne andavano. Un’esperienza sconvolgente che non dimenticherò mai”.