Sarà per il sole caldo o per il vociare allegro che, a dispetto della lotta per la sopravvivenza di questo luogo, anima la comunità di attiviste, ospiti e operatrici sedute in cortile, ma la Casa delle Donne Lucha y Siesta fa pensare alla primavera. Qui le vite di tante donne sono tornate a sbocciare, dopo che la violenza del maschio e la solitudine della società le aveva fatte appassire. Perché questo è un luogo metafisico di femminismo, politica – nel senso più alto – e buone pratiche, è il luogo dove vive quel famoso slogan spesso abusato fino a risultare vuoto. Sì, questo è il luogo dove è 8 marzo tutto l’anno. Un posto potente come le radici che lo ancorano al territorio del Tuscolano profondo, élite della periferia romana. Il cancello si apre a una decina di metri dalla fermata della metropolitana “Lucio Sestio”, uno specchio fonetico sul quale rimbalzano – e non è un caso – le parole Lucha y Siesta, lotta e riposo. “La lotta è quella dei movimenti femministi, di tutte le donne e di quelle che decidono di uscire dalle situazioni di violenza, di chi resiste tutti i giorni e di chi vuole ricostruirsi una vita”, racconta Chiara, attivista da otto anni. “Il riposo è quello che serve alle donne per ripartire, per riflettere sul proprio percorso individuale e per riprendere la lotta”.

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Ma che cos’è Lucha y Siesta in concreto? “Siamo un posto per dormire, uno sportello di ascolto, una sartoria dove imparare un mestiere, un centro clinico e di aiuto psicologico, uno spazio per famiglie e bambini, un punto di riferimento non solo per le ospiti ma per tante donne della città, una fucina di iniziative culturali e sociali, una biblioteca, un cinema estivo. Siamo un percorso politico. Siamo un luogo femminista, una casa delle donne”, ci risponde Chiara con orgoglio. Un luogo che può ospitare 14 donne che hanno subito violenza. In tutto a Roma i posti sono 37. Dovrebbero essere circa 300, secondo i criteri dettati dalla Convenzione di Istanbul sulla violenza di genere, ratificata dall’Italia nel 2013.

Questa lotta ebbe inizio l’8 marzo del 2008, quando oltre duecento donne decisero di occupare – di liberare, precisano loro – questo luogo. Il momento per la città era particolare. Walter Veltroni, fresco fondatore del Partito Democratico, aveva appena abbandonato il Campidoglio per affrontare, da leader, le elezioni politiche contro Berlusconi. La città era stata affidata a un commissario straordinario, Mario Morcone, che avrebbe poi lasciato il posto, con il voto del maggio successivo, a Gianni Alemanno. E sulla città gravava ancora il peso e lo strazio dell’omicidio – allora non si parlava ancora di femminicidio – di Giovanna Reggiani, una donna di 47 anni, violentata e massacrata, il 30 ottobre del 2007, nei pressi della stazione ferroviaria di Tor di Quinto. Per reagire a quel crimine feroce e al modo in cui venne strumentalizzato dalle istituzioni in chiave anti immigrati, il movimento femminista, subito dopo, il 25 novembre, diede vita a Roma a un corteo di 150 mila donne, con un chiaro slogan: ‘il maltrattante ha le chiavi di casa’. “Molte di noi – ricorda Simona, tra le fondatrici di questa esperienza – si avvicinarono al movimento femminista proprio in seguito a queste vicende. Iniziarono a frequentare i collettivi, a guardare da una prospettiva più ampia le esperienze di violenza sulle donne che gli venivano raccontate nell’attività di sportello. Mettemmo così a fuoco l’esigenza di creare un posto come Lucha y Siesta. Fu la nostra risposta al bisogno di costruire qualcosa di concreto per cambiare le cose”. Fu così che questo vecchio e incantevole edificio del 1922, una delle prime stazioni della Capitale, quella di Cecafumo – dal nome di questa porzione del Quadraro – sulla tratta del trenino che univa il centro agli studios di Cinecittà, si trasformò nel luogo accogliente che è oggi.  “Quando entrammo – ci racconta Simona – trovammo un cimitero di materiale elettrico e vecchi faldoni. Centinaia di computer dismessi dagli uffici dell’ATAC, impastati nel guano dei piccioni che, insieme ai topi, avevano eletto queste mura a rifugio”. Iniziò proprio quell’8 marzo un’opera di riqualificazione che, in pochi mesi, diede vita al sogno delle attiviste.

Quel sogno, negli anni, si è strutturato fino a diventare un landmark sociale della Capitale, un progetto guardato con orgoglio e studiato con invidia dai movimenti femministi di tutta Italia. Un’esperienza che riscosse persino l’ammirazione della commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere Femm del Parlamento europeo, l’istituzione continentale più avanzata e sensibile alle questioni di genere, che invitò una delegazione di Lucha y Siesta all’audizione del 3 settembre 2018.

Eppure il Comune a guida Cinque Stelle ha deciso di spegnerla. Da un anno minaccia lo sgombero che sembra ormai inevitabile. “A breve ci costringeranno a chiudere”, dice senza mezzi termini Simona, nonostante l’eroica resistenza delle attiviste e dell’intero quartiere che martedì scorso ha impedito il distacco delle utenze. Non ci saranno proroghe. Ogni ora potrebbe essere quella fatale, in cui su questa esperienza calerà il buio. Il 7 aprile, ci ha spiegato Claudia Bella, della Cgil capitolina, l’Atac ha deciso di mettere all’asta l’immobile. Nonostante la sua storia e la sua bellezza, a protezione di questo luogo non è mai stato posto un vincolo architettonico. Ora, per la dissennata scelta del Campidoglio e nonostante l’impegno della Regione Lazio al fianco delle attiviste, niente riuscirà a frenare gli appetiti degli speculatori, pronti, è il timore, ad asfaltare questo fiore nel cemento di un altro centro commerciale.

SCHEDA Un bilancio tutto in positivo, G.S.
FOTO | VIDEO, S.Caleo