Vent’anni di guerra civile in Sudan hanno causato la morte di due milioni di persone e indicibili sofferenze alla popolazione, vittima della più grave crisi alimentare al mondo per l’inaccessibilità degli aiuti umanitari e l’abbandono delle attività agricole, come si legge un rapporto della Caritas internazionale. Oltre metà della popolazione è in uno stato di fame acuta e il 60% della popolazione ha un accesso insufficiente all’assistenza sanitaria.

Stupri, torture, violenze e uccisioni da parte delle milizie, sono incessanti da anni. Già nel 2009 il procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno-Ocampo, aveva presentato le prove che dimostravano essere in corso nel Darfur un genocidio da parte dell’allora presidente Omar Hassan Ahmad Al Bashir, deposto nel 2019 durante un colpo di Stato. 

Tutto questo non pare però essere sufficiente per attrarre l’attenzione e l’intervento internazionale e nemmeno per un’opera di sensibilizzazione mediatica sui cittadini ‘occidentali’. A insistere per cercare di vincere l’indifferenza generale sul destino e il passato dei sudanesi, sono principalmente le organizzazioni non governative, alcune con la loro presenza sul territorio, altre con l’azione politica e propositiva.

C’è chi dice no

Gli operatori umanitari nel Darfur fanno sapere di essere costretti a “scegliere chi salvare” a causa delle risorse insufficienti. Il responsabile della logistica dell’organizzazione non governativa Handicap international, Jerome Bertrand, al ritorno da una missione di tre settimane ha raccontato che le squadre stanno dando priorità a bambini, donne incinte e madri che allattano, ma che si tratta di “un dilemma disumano che gli operatori umanitari devono affrontare e che va completamente contro i loro valori".

Darfur, Sud Sudan, anno 2005. Campo profughi di Kalma, assolato e polveroso. Guardo i bambini ritratti nella foto, così piccoli nell'immensità del campo, e non riesco a immaginare il loro futuro. Li guardo a distanza di 15 anni e mi chiedo quale sia ora il loro presente
Darfur, Sud Sudan, anno 2005. Campo profughi di Kalma, assolato e polveroso. Guardo i bambini ritratti nella foto, così piccoli nell'immensità del campo, e non riesco a immaginare il loro futuro. Li guardo a distanza di 15 anni e mi chiedo quale sia ora il loro presente
Bambini del campo di Kalma nel Darfur (Marco Merlini)

Bertrand fa sapere che “le condizioni nel Darfur sono peggiorate drasticamente da quando, il 26 ottobre, i paramilitari hanno conquistato Al-Fashir, capitale del Darfur settentrionale e ultima roccaforte dell'esercito nella regione. Nessuno degli aeroporti del Darfur è in grado di ricevere aiuti, le strade sono spesso impraticabili e l'unico punto di accesso alla regione attraverso il vicino Ciad, è pieno di ostacoli amministrativi. L’approvvigionamento di un'area grande quanto la Francia viene trasportato in parte a dorso di asino".

Italians for Darfur ha da pochi giorni lanciato la campagna di disinvestimento “per colpire economicamente i signori della guerra in Sudan, dove si continua a morire nell’indifferenza del mondo, Disinvestire è l'arma per la pace in Sudan”. “I nostri soldi valgono più di quanto crediamo, si chiama 'consumo responsabile' e si sta diffondendo in tutto il mondo industrializzato”, si legge in un comunicato che spiega l’utilità di “dirottare gli investimenti delle aziende italiane in Sudan, costringendo i militari al potere a porre fine al conflitto iniziato nell'aprile del 2013 con le Rapid Support forces che per ritorsione hanno ripreso lo sterminio in Darfur".

Gli interessi internazionali 

Come ci spiega Massimo Alberizzi, giornalista già africanista del Corriere della Sera e direttore della rivista online Africa Express, vi sono interessi internazionali sul Sudan, la guerra in corso non ha alcun che di religioso e ormai prosegue da due decenni: “È una lotta che va avanti dal 2004 e vede contrapposti coloro che hanno il potere, soprattutto economico, e le tribù di origine africana. Quella che sta subendo la più dura repressione è la tribù dei Masalit, di origine musulmana, africani che parlano la loro lingua, ma non scritta in arabo, bensì in carattere latini. Un dato particolare di tipo culturale. Inoltre, mentre le altre tribù africane sono contadine, quelle arabe sono composte da pastori”.

Da anni il cambiamento climatico sta spingendo più a sud i confini del deserto del Sahara, quindi non ci sono più sufficienti pascoli per i pastori, i quali invadono le terre dei contadini. “Questa – dice Alberizzi – è l'origine di fondo, sulla quale si inserisce una serie di interessi tribali, economici, per impadronirsi uno del territorio dell’altro, del negozio, della mandria. I contadini non hanno grandi bande, al contrario dei pastori e lo scenario si basa proprio su questa diversità”.

“A scontrarsi, è vero, sono le bande – prosegue -, ma in realtà c’è un governo golpista, quindi privo di legittimità, che si scontra con il capo delle milizie Janjawid (i “diavoli a cavallo”), le quali nel 2004, dopo che era scoppiata la guerra tra i pastori arabi e le tribù africane, si sono organizzate e hanno iniziato ad andare nei villaggi africani bruciandoli, violentando e uccidendo le donne, sequestrando i bambini, ammazzando gli uomini.

Il vecchio dittatore, Omar al-Bashir, è stato deposto dalla rivolta della popolazione, società civile e difensori dei diritti umani che si sono ribellati con l'aiuto di una parte dell'esercito, poi l'esercito che poi si è diviso al suo interno. In tutto questo il generale Al-Burhan ha preso il potere scatenando le ire dell'altra parte dell'esercito composta dagli ex jihadisti. Si è così arrivati alla guerra civile”.

Giungiamo quindi ai vasti interessi geopolitici per sapere che “i Janjawid, che sono islamisti, sono sostenuti  dagli Emirati arabi uniti e a loro volta sostengono la fazione ribelle di Aftar Khalid in Libia che combatte contro il governo islamista appoggiato dall'Europa e dagli Stati Uniti – dice Alberizzi –. Si capisce che la situazione è complicata e non si può parlare di moventi ideologici, perché si tratta solo di miniere e di sfruttamento delle risorse minerali del Sudan”.

“Alle spalle delle forze governative sudanesi ci sono invece l'Arabia Saudita, le fazioni dello Yemen filo-saudite e le fazioni filo-iraniane. Gli americani appoggiano il governo di Tripoli e il governo sudanese nella persone del generale al-Buran. In realtà gli Usa hanno un doppio standard, una doppia identificazione, perché i Janjawid controllano le miniere d'oro, cui sono interessati gli americani, come sono interessati anche i russi. Mosca sostiene dal canto suo gli ex-jihadisti perché occupano le miniere di uranio nelle aree controllate dalla Rapid Forces, i cosiddetti ribelli”. È perciò lampante che, come sempre, quando si parla di Africa, il problema è di sfruttamento delle risorse dei paesi di questo continente. 

Gli interessi italiani

Il direttore di Agrica Express non trascura che anche il nostro Pese e l’attuale governo hanno interessi in Sudan, ma non legati ai fattori estrattivi, bensì alle rotte migratorie. “L’appoggio logistico è nei confronti di chi ha il controllo del confine tra Sudan e Libia (Paese con il quale l’Italia ha un discusso accordo per la gestione dei transiti e sul quale insistono i ‘lager’ per migranti, ndr), l’area delle Rapid support forces. Senza contare che Europa e Italia continuano ad avere un commercio di armi con gli Emirati arabi che sostengono i Janjawid. 

“Mentre c'è chi tutela i propri interessi, la vita quotidiana, i villaggi, le città dei sudanesi sono completamente distrutte. El Fashir, la capitale del Darfour rimasta sotto assedio da 18 mesi delle Rsf e caduta da pochi giorni,  è rasa al suolo. I miliziani hanno compiuto le peggiori atrocità e le filmano e mostrano sul web. Uno dei capi si è vantato di avere ucciso 2.000 persone. E, in tutto questo, la comunità internazionale continua a non intervenire”.