Si avvicina la scadenza della consultazione elettorale presidenziale negli Usa, prevista per il 4 novembre. Mentre Obama continua a volare nei sondaggi, l’ansia per il voto dei cosiddetti swinging States esplode puntuale come alla vigilia di ogni scadenza elettorale negli Usa. Molti di questi Stati si concentrano nel Midwest dove, accanto a realtà solidamente democratiche come l’Illinois, se ne trovano altre quali Ohio, Missouri, Indiana che nel 2004 hanno scelto Bush e altre ancora (come Minnesota, Michigan e Wisconsin) che hanno dato al candidato democratico un assai ristretto margine di vantaggio.


Dayton, Michigan. Le vittime sono tante in giro per il Midwest. Ad avviarsi sulla strada dell’estinzione sono infatti intere città, in gran parte company-towns cresciute e arricchitesi in virtù dell’espansione – che allora sembrava non dovesse finire mai – di un singola produzione o di una singola impresa. Ma non solo: a “rischiare la vita” sono città che come Dayton, nel Michigan, vantano un passato industriale diversificato e straordinariamente inventivo. Qui è stato disegnato il primo aereo, inventato il registratore di cassa e il parchimetro, brevettato il codice a barre. La città, ricorda Richard Longworth nel suo Caught in the Middle, un’inchiesta sul Midwest in trasformazione di recente pubblicazione, ha il più alto numero di brevetti per abitante dell’intero paese: un record particolarmente notevole quando si tratta degli Stati Uniti.

Gran parte del suo ingegno si concentrava in una grande corporation, Delphi, tutt’ora impresa leader nella produzione di componentistica per la produzione automobilistica. General Motors è ancora il suo primo cliente, ma nel frattempo Delphi è diventata un’impresa globale: 185.000 dipendenti in 34 paesi, di cui ormai solo 50.000 negli Stati Uniti. Ebbene, a un certo punto, nel 2005, Delphi, o meglio la sua branca americana, dichiara bancarotta. Una mossa dal significato molto chiaro per Longworth, secondo il quale “il vero motivo era semplicemente tagliare i costi chiudendo gli impianti Usa, liberarsi degli impiegati e soprattutto dell’impegno a corrispondere loro gli oneri pensionistici e sanitari”. Un’apocalisse per Dayton, nella cui area urbana Delphi ha cinque imprese con circa 5.700 dipendenti. Alla fine della ristrutturazione potrebbero rimanere una sola impresa e non più di duecento dipendenti. Ma questo è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di declino: a metà degli anni settanta Delphi dava lavoro a 30.000 impiegati, che sono poi precipitati a 20.000 nel decennio successivo, sotto i colpi dell’avanzare dell’automazione e delle delocalizzazioni in direzione prima degli Stati del sud deregolati e de-sindacalizzati e poi del Messico.

Un tempo lavorare per la Delphi significava far parte a tutti gli effetti della middle-class. I “suoi” posti di lavoro erano in gran parte good jobs, come si dice da queste parti, con salari orari che arrivavano fino a 28 dollari e che saranno quasi dimezzati per quei pochi dipendenti che sopravviveranno alla strana bancarotta della loro azienda. Il futuro appare quindi nero più che grigio in una città che già prima della chiusura di fatto della sua impresa più importante aveva perso 26.000 posti di lavoro dal 2000, ovviamente in larga parte manifatturieri. Gli effetti urbani del declino economico sono ben noti. La città perde abitanti e attività, la sua downtown s’immiserisce e si svuota, interi quartieri si avviano a un lungo e doloroso declino fatto di case abbandonate e degrado pervasivo.

La fine della classe media industriale
Quello del Midwest è uno strano declino: “Negli ultimi vent’anni – ricorda ancora Longworth – la produzione manifatturiera è cresciuta del 50 per cento o più. Ma il numero di posti di lavoro nell’industria manifatturiera è calato del 20 per cento nei più importanti Stati industriali. Significa, semplicemente, che meno gente fa più cose”. La reazione della gran parte dei governi locali a questo stato di cose è stata quella di dissanguarsi pur di tenersi stretto il più alto numero possibile di posti di lavoro. È il caso del Michigan, la patria dell’industria automobilistica, che ha perso negli ultimi tre anni l’incredibile cifra di 163.000 posti di lavoro nel settore manifatturiero. Ne rimangono 700.000, ma molti di questi sembrano destinati a evaporare, nonostante i 600 milioni di dollari l’anno di tagli fiscali per l’industria recentemente approvati dall’assemblea dello Stato.

Inevitabilmente sulla difensiva paiono anche le grandi organizzazioni sindacali che per decenni hanno contribuito a fare la gloria del Midwest. Ogni crisi e ristrutturazione significa infatti l’amputazione vera e propria di interi pezzi di sindacato, a partire dall’Uaw (United Auto Workers) che dai 1.500.000 di aderenti di un tempo è oggi ridotta a 580.000, un numero destinato a contrarsi ulteriormente. Molte delle federazioni locali sono a rischio chiusura mentre altre, come nel caso della Uaw di Dayton, sono costrette nel ruolo di meri gestori del declino proprio e delle imprese in cui sono radicati.

A tramontare è così un intero mondo sociale nel quale la working class si era trasformata nell’immediato dopoguerra in middle class, in virtù del patto di ferro fra centrali sindacali e grande impresa che per anni aveva garantito ai secondi la pace sociale (dopo le intense lotte operaie della prima metà del secolo) e ai primi un potere d’acquisto per i propri iscritti che era inimmaginabile fino a qualche tempo prima. Le famiglie operaie accedevano così ad alti salari, piani pensionistici e sanitari che ne facevano i membri di una nuova industrial middle class: alla catena di montaggio durante il turno di lavoro ma proprietari di un’abitazione e di un’automobile relativamente costose e, soprattutto, sicure di poter pagare le costose rette del college dei propri figli, garanzia del destino sociale ascendente del nucleo familiare. Si trattava di un modello di relazioni industriali che assicurava al paese un vantaggio competitivo fondamentale nel confronto ideologico con l’Unione Sovietica e che trovava nel Midwest il proprio ambiente naturale. Ora tutto è cambiato. Non solo i buoni posti di lavoro manifatturieri si riducono sempre di più, ma quelli che rimangono vedono erodersi garanzie e salario, a fronte del ricatto sempre presente della delocalizzazione. Esattamente come accaduto a Dayton. Quindi quella che è correntemente considerata come la porta di accesso alla classe media – un salario annuale di circa 41.000 dollari – si allontana sempre di più dalle reali possibilità dei lavoratori dell’industria. Oggi, infatti, sono solo 1.900.000 i lavoratori che nel settore manifatturiero guadagnano ancora i 20 dollari orari che permettono di raggiungere quel reddito annuale. La stessa grande industria automobilistica – i cosiddetti Big Three di Detroit, Chrysler, General Motors e Ford, costantemente in crisi – è ora impegnata nella sostituzione dei 25.000 lavoratori che percepiscono un salario orario superiore ai 20 dollari con nuovi assunti che quasi mai raggiungono quella soglia.

Le radici della crisi finanziaria risiederebbero anche qui, nella crescente insostenibilità di un tenore di vita tuttora considerato come uno degli ingredienti fondamentali della stessa identità nazionale. Ridottosi il salario nella sua componente monetaria e in quella sociale – che qui dipende ancora in gran parte dalla propria collocazione nel mercato del lavoro, a partire dalla copertura sanitaria – molte famiglie si sono sempre più indebitate, attraverso il ricorso massiccio a quei nuovi e spericolati strumenti finanziari, la cui diffusione ha contribuito al collasso di queste ultime settimane.

Nafta, la Cina e il Partito democratico
Nel Midwest si respira quindi un forte vento protezionistico. La liberalizzazione dei mercati e il crescente sradicamento territoriale delle imprese divengono così i bersagli del malcontento montante delle vecchie regioni manifatturiere. Una nuova polemica di classe, spesso confusa e populista, oppone ora i diritti di Main Street – l’America profonda che lavora con le proprie mani ed è radicata in un luogo – ai privilegi e all’avidità di Wall Street, popolata di una nuova classe di apolidi superricchi indifferenti ai destini dell’economia reale. Questa è la rappresentazione corrente della situazione, la cui prima vittima è la popolarità del libero scambio e dell’integrazione dei mercati che da queste parti significa, quantomeno nell’immaginario, soprattutto Nafta. Il Trattato di libero scambio del Nordamerica firmato dall’Amministrazione Clinton nel 1994 è divenuto così, anche nella campagna presidenziale, il responsabile di tutti i mali, nonostante sia del tutto evidente che il Midwest abbia visto la competitività della propria industria ridursi significativamente a partire dagli anni settanta, con l’ascesa mondiale della produzione giapponese e una prima stagione di delocalizzazioni che, in parte rilevante, si orientava verso nuove localizzazioni negli stessi Stati del Sud, dove bassi o nulli livelli di sindacalizzazione assicuravano salari molto più bassi e profitti molto più alti. Dopo è certo arrivato il Nafta, ma anche la competizione crescente dei nuovi protagonisti dell’economia mondiale, a partire dalla Cina.

La scommessa di Obama è quella di convincere l’elettorato del Midwest a votare secondo i propri interessi materiali e non secondo quei valori conservatori che hanno fatto dell’area un generoso terreno di caccia per i repubblicani. Obama promette, così, una revisione profonda del Nafta – argomento delicato per i democratici, data l’identità del suo autore – e l’impegno a schierare l’America per un commercio mondiale che sia più equo e che punti all’innalzamento degli standard ambientali e sindacali. Ma la proposta chiave è quella di un insieme di misure fiscali che puniscano duramente le delocalizzazioni e premino le imprese che mantengono linee produttive e direzione all’interno dei confini del paese. Una rivoluzione per il partito che con Bill Clinton aveva strettamente associato le sorti dei progressisti americani a quelle dell’integrazione globale. Anche da questo dipenderà l’esito del voto del 4 novembre nel quale il vecchio, arrabbiato e imprevedibile Midwest sarà forse, ancora una volta, il protagonista principale.