Tra il 2006 e il 2024 l’emigrazione italiana è diventata un fenomeno strutturale. Dopo la crisi del 2008, gli espatri sono cresciuti costantemente, toccando nel 2024 il record storico di 155.732 partenze.

Dove se ne vanno coloro che scelgono di lasciare la terra natia? Il 76 per cento in Europa, con Regno Unito, Germania e Svizzera in testa. Ma  mentre l’Italia si svuota di giovani, la legge di bilancio 2026 non prevede nulla per trattenerli o farli tornare. Niente per aumentare i salari, niente per stabilizzare i precari nei settori pubblici, niente per accrescere il potere d’acquisto delle famiglie.

Espatriano i giovani

A guardare da vicino i numeri dell’ultimo rapporto della fondazione Migrantes Italiani nel mondo, lo speciale “Oltre la fuga: talenti, cervelli o braccia?”, il 37,5 per cento degli espatriati nel 2024 sono giovani tra i 25 e i 34 anni, il 23 per cento appartiene alla fascia tra i 35 e i 49 anni. I dati dello scorso anno mostrano la piena ripresa della mobilità italiana: più 38 per cento rispetto all’anno precedente che, in valore assoluto, si traduce in circa 34 mila partenze in più.

L’aumento registrato riguarda prevalentemente i giovani e i giovani adulti. In particolare, nella classe 18-34 anni si rileva un più 47,9 per cento rispetto all’anno precedente, a cui si deve aggiungere il più 38,5 dei 35-49enni. Solo il 31,8 è laureato o dottore di ricerca, il 36,1 ha un diploma, il 31,1 la licenza media.

L’ambizione? Lavoro stabile e dignitoso

“Ricercatori e professionisti non se ne vanno per ambizione individuale, ma perché altrove trovano contratti stabili, retribuzioni dignitose, welfare e servizi che consentono di vivere e progettare il futuro – afferma Lara Ghiglione, segretaria confederale della Cgil -. La cosiddetta fuga dei cervelli è in realtà una fuga dal lavoro povero e senza diritti che comprova il fallimento di un modello economico e produttivo che ha scelto di comprimere il valore del lavoro, invece di investirci. I dati parlano chiaro: solo tre giovani su dieci rientrerebbero in Italia perché qui trovano salari più bassi, precarietà diffusa, carriere incerte e un sistema che non riconosce competenze e professionalità. In Italia, invece, si continua a rispondere con incentivi fiscali selettivi, che non modificano le condizioni strutturali del lavoro e non contrastano la precarizzazione sistemica”.

Incentivi ai cervelli

Un tentativo di soluzione sono stati gli incentivi per il rientro di docenti e ricercatori all’estero, una tassazione agevolata per chi decide di trasferire la residenza fiscale in Italia. Con la normativa del 2023 (decreto legislativo 209), il panorama degli incentivi destinati ai cervelli di ritorno e ai lavoratori impatriati si è arricchito di nuove disposizioni che, se da un lato confermano alcuni benefici già esistenti, dall’altro introducono regole più restrittive per l’accesso al regime agevolato.

Sono riservati a chi ha un titolo universitario, ha vissuto all’estero per almeno due anni consecutivi, svolgendo attività di ricerca o docenza, e torna a lavorare in Italia.

Serve una vera svolta

“Come Cgil diciamo da tempo che non bastano bonus o sgravi – afferma Ghiglione -: serve una svolta vera sulle politiche del lavoro. Serve investire su salari, contratti nazionali forti, stabilità occupazionale, finanziamento pubblico della ricerca e dell’università, valorizzazione delle carriere e dei percorsi professionali. È necessario anche investire sulle politiche abitative per abbattere i costi e sui servizi pubblici a sostegno della genitorialità, a partire dagli asili nido. Senza questi interventi, ogni incentivo rischia di essere solo un pannicello caldo, incapace di invertire la rotta”.

Cervelli ma anche braccia

Tra l’altro chi espatria non è necessariamente un super laureato. Lo dicono i dati. “In un crescendo di presenze all’estero – precisa il report di Migrantes –, aumenta il livello di istruzione dei protagonisti di questi flussi che, stando agli ultimi dati Istat sugli espatri nel 2024 sono, però, solamente per meno di un terzo laureati o dottori di ricerca (31,8 per cento). Piuttosto, il 36,1 per cento sono diplomati ai quali aggiungere i possessori di licenza media (31,1 per cento)”.

Chi parte, quindi, è sì giovane e giovane adulto, ma è anche soprattutto diplomato. E questo contraddice la narrazione più diffusa, anche nel generale aumento della preparazione della nostra popolazione. Guardando ai valori assoluti, nella classe di età 18-34 anni, dal 2023 al 2024 si ha una differenza in positivo di 15 mila espatri con titolo di studio medio-basso e di 6.500 circa con titolo alto.

Si parte, si ritorna, si riparte

Negli anni però la mobilità si è fatta più circolare e complessa: si parte, si ritorna, si riparte. Accanto ai giovani, tra gli italiani residenti all’estero crescono anche le donne (più 115,9 per cento in vent’anni, dati Aire) e gli over 50, spesso nonni o lavoratori che raggiungono figli e nipoti.

“Le costanti? – si legge nel report - Una spinta migratoria legata a fragilità strutturali del Paese e a un sistema bloccato, lavoro precario, disuguaglianze territoriali, riconoscimento del merito, ma anche una dimensione di scelta, curiosità e progettualità personale”.

Il destino del Paese

“Qui non è in gioco solo il destino dei giovani, ma il futuro del Paese – conclude la leader sindacale -. Un’Italia che forma competenze e poi le espelle è un Paese che si condanna alla stagnazione e alla perdita di democrazia sostanziale. Trattenere e far tornare le persone significa garantire lavoro dignitoso, diritti esigibili e prospettive di vita. Questa è la vera vertenza nazionale che abbiamo davanti, ed è una responsabilità politica che non può più essere rinviata. Anche di questo parleremo nella due giorni, il 22 e 23 gennaio, dedicata al paper ‘Ci siamo’ frutto della discussione degli under 35 della Cgil durata quasi due anni”.