Processato più volte per le sue azioni, Nelson Mandela dichiarava in un’appassionata arringa durante il suo processo nel 1964 davanti alla Corte suprema di Pretoria: “Ho lottato contro il dominio bianco e contro il dominio nero. Ho coltivato l’ideale di una società democratica e libera nella quale tutti potessero vivere uniti in armonia e con pari opportunità. È un ideale per il quale spero di poter vivere e che spero di ottenere. Ma se necessario, è un ideale per il quale sono pronto a morire”.

Condannato all’ergastolo tornerà libero, quasi settantaduenne, solo l’11 febbraio 1990. A 72 anni, dopo 27 di reclusione, era tra i più anziani prigionieri politici del mondo.

“Lo abbiamo capito ora - dirà nel suo discorso d'insediamento - che non vi è nessuna strada facile per la libertà. Lo sappiamo bene che nessuno di noi da solo può farcela e avere successo (...). Il tempo per la guarigione delle ferite è venuto. Il momento di colmare gli abissi che ci dividono è venuto. Il tempo di costruire è su di noi, è il nostro tempo, la nostra ora (…) Siamo appena usciti dall’esperienza di una catastrofe straordinaria dell’uomo sull’uomo durata troppo a lungo, oggi qui deve nascere una società a cui tutta l’umanità guarderà e questo ci renderà orgogliosi. (…) Abbiamo, finalmente, raggiunto la nostra emancipazione politica. Ci impegniamo a liberare tutto il nostro popolo dalla schiavitù continua della povertà, della privazione, della sofferenza, della discriminazione di genere e altro. Siamo riusciti a compiere i nostri ultimi passi verso la libertà in condizioni di relativa pace. Ci impegniamo per la costruzione di una pace intera, giusta e duratura. Abbiamo trionfato nel tentativo di impiantare dei semi di speranza nel cuore di milioni di nostri cittadini. Oggi entriamo nel patto che noi costruiremo una società in cui tutti i sudafricani, bianchi e neri, saranno in grado di camminare a testa alta, senza alcun timore nei loro cuori, certi del loro inalienabile diritto alla dignità umana - una nazione arcobaleno in pace con se stessa e il mondo. (…) I loro sogni sono diventati realtà. La libertà è la loro ricompensa. (…) Dobbiamo quindi agire insieme come un popolo unito, per la riconciliazione nazionale, per la costruzione della nazione, per la nascita di un nuovo mondo. (…) che ci sia giustizia per tutti. Ci sia pace per tutti. Che ci sia di lavoro, pane, acqua e sale per tutti.”.

Nelson Mandela è una delle due persone di origini non indiane (l’altra è Madre Teresa) ad aver ottenuto il Bharat Ratna, il più alto riconoscimento civile indiano nel 1990. Ha inoltre ricevuto l’Order of St. John dalla Regina Elisabetta II e la Presidential Medal of Freedom da George W. Bush. Ruud Gullit, allora calciatore del Milan, gli dedicherà il pallone d’oro assegnatogli nel 1987.

“Free Nelson Mandela” sarà l’urlo di ogni piazza e di ogni manifestazione durante gli anni della prigionia. Un mantra inarrestabile, una preghiera laica che diventerà l’11 giugno 1988 al Wembley Stadium di Londra un mega-concerto pop rock dalla durata di undici ore organizzato per chiedere la scarcerazione di Nelson Mandela nel giorno del suo settantesimo compleanno, trasmesso in diretta televisiva per un’audience globale di 600 milioni di persone.

“A differenza di Giulio Cesare - scriveva di lui il settimanale Mail & Guardian - Mandela restò nelle sale del potere politico il tempo sufficiente per non vedere il suo nome marchiato dall’infamia della dittatura o da quel tipo di malattia amministrativa e incompetenza che ci troviamo davanti oggi. Come Cesare ha tuttavia vissuto abbastanza per vedere la sua stessa persona diventare un marchio. In Mandela c’è l’icona, l’uomo e, innegabile, il mito”.

“Mi preoccupava molto la falsa immagine di me stesso che avevo proiettato - scriveva Madiba in uno dei suoi appunti - Nel mondo ero considerato una sorta di santo ma non lo sono mai stato, nemmeno se per santo si intende un peccatore che continua a provarci”.

“Non giudicatemi per i miei successi - dirà - ma per tutte le volte che sono caduto e sono riuscito a rialzarmi”.