Torna l’ombra del fascismo in Italia
El Pais, 12 ottobre 2021

L’assalto alla sede del principale sindacato italiano da parte dell’estrema destra in una manifestazione no-vax riapre il dibattito sulla messa fuori legge dei partiti fascisti. La manifestazione è stata indetta per le cinque del pomeriggio in Piazza del Popolo, nel centro di Roma. Doveva essere una protesta contro l’obbligo del green pass a lavoro che entrerà in vigore il 15 ottobre. C’erano più di 10.000 persone. Un misto di militanti dei partiti di estrema destra, fascisti dichiarati e no-vax. Ma in cantiere c’era un altro piano preparato via Telegram e ispirato dall’assalto al Congresso degli Stati Uniti dello scorso gennaio. La metà dei partecipanti si è staccata dalla marcia e si è diretta verso altri obiettivi. L’organizzatore principale, il partito di estrema destra di Forza Nuova, voleva prendere il controllo della sede del Governo italiano, Palazzo Chigi. Hanno raggiunto uno dei lati dell’edificio e sono scoppiati i disordini. Ma è stato per loro molto difficile e hanno deciso, quindi, di dirigersi verso la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil), il principale sindacato italiano, dove hanno devastato la sede. È stato un attacco insolito che ha messo in guardia l’Italia intera.

La violenta guerriglia che si è consumata nel centro di Roma, sabato, per sette ore e che ha portato all’arresto di 12 persone, tra cui dirigenti di partiti fascisti, ex terroristi e rappresentanti del mondo no-vax, ha rappresentato un punto di svolta nel rapporto tra lo Stato italiano e questi gruppi. Un cocktail di ingredienti sociali e politici miscelati durante la pandemia che hanno trovato una certa copertura presso i partiti di destra, come la Lega o Fratelli d’Italia, bloccati nell’ambiguità elettorale sulla campagna vaccinale e sulle misure di restrizione.

Per la prima volta il Governo sta pensando di mettere fuori legge formazioni politiche di questo tipo. Il deputato del Partito Democratico e costituzionalista Stefano Ceccanti ricorda che la legge Scelba del 1952, dal nome dell’ex ministro degli Interni Mario Scelba, prevede questa via per lo scioglimento dei partiti fascisti: “Può essere fatta attraverso una sentenza del tribunale o per decreto del Governo. Un’opzione in caso di urgenza immediata. Ma fino a questo momento non è stata percorsa questa via ed è sempre avvenuto tramite sentenza”. Lunedì pomeriggio, la procura di Roma ha ordinato alla polizia di oscurare il sito web di Forza Nuova, decisione che potrebbe essere interpretata come un primo passo verso questa direzione.

La legge Scelba, che fa riferimento all’articolo 12 della Costituzione, che vieta la ricostruzione del partito fascista, si applica quando una formazione politica persegue scopi antidemocratici propri del partito fascista “utilizzando o minacciando la violenza come metodo politico, o realizza manifestazioni esterne di carattere fascista”. Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale sono i due partiti che sono stati già messi fuori legge con sentenza di un giudice. La via del decreto del Governo, che ora si sta valutando, non è mai stata percorsa. Fonti governative spiegano che ieri sono stati studiati i possibili inconvenienti della misura: “Al momento sarebbe complicato e potrebbe produrre un effetto contrario”.

Il presidente del Consiglio Mario Draghi non ha rilasciato dichiarazioni in merito, ma ha fatto visita a Maurizio Landini, segretario generale del sindacato, la cui sede ha subito l’assalto. Nella sede del sindacato ha condannato la violenza contro il sindacato che considera “guardiani della democrazia”. Il Partito Democratico ha, tuttavia, chiesto di percorrere questa via con il Parlamento. La richiesta è stata, però, rifiutata dalla destra italiana, la Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia.

Il principale gruppo della rivolta di domenica è Forza Nuova, partito politico neofascista fondato nel 1997 da Roberto Fiore e Massimo Morsello, storici militanti di estrema destra e membri di organizzazioni terroristiche come il Nucleo Armato Rivoluzionario (NAR). Fiore è stato latitante per più di dieci anni. Oggi la formazione conta poco più di qualche migliaio di militanti ed è guidata da lui e da Giuliano Castellino (condannato a quattro anni di carcere nel 2019 per aver aggredito un poliziotto). I due provengono dal partito Fiamma Tricolore, una scissione del Movimento Sociale Italiano (MSI), che riuniva tutti i reduci del fascismo in Italia e che per anni è stato presieduto da Giorgio Almirante. Gianfranco Fini fondò successivamente il partito di Alleanza Nazionale, che entrò nelle istituzioni e rinunciò al riferimento ideologico con la nota Svolta di Fiuggi. E dalle ceneri di quel partito è nato Fratelli d'Italia, che oggi è guidato da Giorgia Meloni ed è partner di Vox in Italia.

Secondo l'opinione dello storico Emilio Gentile, massima studioso del fascismo, la legge, nel caso di Forza Nuova, è chiara e deve essere applicata. "Si definiscono fascisti e il metodo violento usato sabato è quello degli squadristi di Mussolini: prendere d'assalto le sedi dei lavoratori e distruggerle. Se si autoproclamano così, devono essere trattati per quello che sono. Altrimenti, si dovrebbe abolire la legge".

Per leggere l'articolo originale:  La sombra del fascismo regresa a Italia

La crisi energetica spinge Cuba ad accelerare la transizione
Inter Press Service, 14 ottobre 2021

Con l’invecchiamento delle infrastrutture e i problemi legati alla fornitura di combustibile, il sistema cubano di energia elettrica sta affrontando una crisi che potrebbe accelerare i piani per aumentare la quota di fonti rinnovabili nel mix energetico. In 15 province del paese insulare caraibico si sono verificati dei blackout nelle ultime settimane. Secondo le autorità, la causa dei deficit di generazione elettrica sono imputabili ai guasti nelle otto centrali termoelettriche e al ritardo con cui viene fatta la manutenzione in 18 dei suoi 20 blocchi generatori di corrente elettrica. Inoltre, a causa della mancanza di pezzi di ricambio ci sono malfunzionamenti nel sistema di distribuzione di energia elettrica, nelle linee, nelle sottostazioni e nei trasformatori.

Cuba produce la metà del combustibile utilizzato in molte delle sue centrali termoelettriche, ma una parte significativa dipende dalle importazioni. In base agli accordi bilaterali con il Venezuela, Cuba dovrebbe ricevere circa 53.000 barili al giorno di petrolio e derivati. Ma i media riferiscono che, anche se il governo locale non fornisce cifre precise, il crollo del paese sudamericano sotto il peso della sua prolungata crisi fa sì che le spedizioni di petrolio e derivati siano irregolari.

Secondo i dirigenti dell'industria, la riduzione dei volumi di gas naturale collegata al petrolio che è utilizzato negli impianti della costa nord-occidentale, è un deficit che può essere superato solo per mezzo di nuovi pozzi di petrolio. Il ministro dell’Energia e delle Miniere, Liván Arronte, ha dichiarato in una trasmissione televisiva del 14 settembre: "Le riserve operative del sistema elettrico sono basse e a volte sono inferiori alla domanda di energia richiesta dai consumatori, il che significa che la fornitura di energia è necessariamente e inevitabilmente ridotta".

La crisi in corso ricorda alle famiglie cubane le interruzioni continue di corrente elettrica dei primi anni '90, quando dopo il crollo dell'allora Unione Sovietica, l'isola perse il suo principale fornitore di carburante. Un'altra crisi energetica si è verificata nel settembre del 2019, quando l'amministrazione dell'allora presidente Donald Trump (dal 2017 al gennaio del 2021) prese provvedimenti per impedire l'arrivo di petroliere nell'isola, nell’ambito delle misure per inasprire l'embargo economico e finanziario che gli Stati Uniti hanno in vigore contro Cuba dal 1962.

Nel rapporto annuale 2020 sull'embargo si dichiara che "Il governo degli Stati Uniti si è impegnato a minacciare e ricattare le imprese che riforniscono Cuba di combustibile, questo è un salto qualitativo nell'intensificazione e nell'applicazione di misure non convenzionali contro coloro che si occupano di trasporto internazionale, senza alcuna autorità legale o morale".

Le autorità cubane sostengono che le sanzioni ostacolino l'accesso al credito per l'acquisto di parti e altri componenti, ritardando la necessaria manutenzione degli impianti termici. Le casse modeste di Cuba non sono in condizione di sostenere spese aggiuntive, considerate le conseguenze di trent’anni di crisi economica e l'impatto della pandemia del Covid-19 che ha reso necessario dare priorità alle importazioni di materiale medico e alimentare. Gli analisti avvertono che la rete elettrica è in condizioni critiche e il livello ancora elevato di dipendenza dalle importazioni di combustibile è un elemento di vulnerabilità e mina la sovranità e l'indipendenza energetica del paese.

La capacità installata di Cuba supera 6500 MW/h, ma la capacità di generazione reale di elettricità è solo la metà, e quando diversi generatori sono scollegati dal Sistema Elettrico Nazionale (SEN), è impossibile soddisfare la domanda massima di elettricità di 3300 a 3500 MW/h. Nel paese ci sono otto centrali termoelettriche con 20 blocchi di generatori e una capacità totale di circa 2600 MW/h, equivalente al 40% dell'elettricità che può essere potenzialmente generata in quest’isola che conta 11.2 milioni di persone.

Molte di queste centrali termoelettriche possono trattare il greggio extra pesante di Cuba (tra sette e 18 gradi API), il contenuto di zolfo del sette-otto per cento aumenta la corrosione nelle caldaie, e questo rende necessario la riduzione dei tempi della manutenzione ordinaria, a 50-70 giorni all'anno. Secondo i dati del 2020 diffusi dai media ufficiali, la produzione di petrolio e gas di accompagnamento di Cuba è di 3.5 milioni di tonnellate all'anno (22 milioni di barili), da cui si ottengono 2.6 milioni di tonnellate (16.3 milioni di barili) di petrolio greggio e circa un miliardo di metri cubi di gas naturale. Secondo i rapporti ufficiali, la rete degli impianti di energia elettrica è la spina dorsale di un sistema integrato nelle 15 province con motori a olio combustibile e generatori diesel, anche questi colpiti dalla carenza di pezzi di ricambio e utilizzano parte dei 150-200 milioni di dollari al mese di importazioni di carburante.

Il resto dell'elettricità a Cuba proviene da gas locale di petrolio liquefatto (quasi l’8%), da fonti rinnovabili (5%) e il 3% da unità galleggianti (patanas), che usano anche combustibili fossili, nella baia di Mariel, a 45 km a ovest dell'Avana. I dirigenti del settore riferiscono che gli impianti termoelettrici costruiti soprattutto con tecnologia della defunta Unione Sovietica e del blocco socialista dell'Europa dell'Est, sono l’unica eccezione con i loro 30-35 anni di vita, e sono necessari dai 40 agli 80 milioni di dollari per riparare ogni impianto.

Il governo, per alleviare la crisi in corso, ha annunciato un programma d'investimento volto a riattivare la capacità di generazione di energia elettrica attualmente inutilizzata e dare priorità al programma di manutenzione scaglionata. Il ministro dell’Energia e delle Miniere, Arronte, ha detto: "I progetti della strategia energetica comprendono quattro blocchi per la generazione termica di 200 MW/h ciascuno, che utilizzeranno il greggio nazionale e ... oggi sono in essere diverse fasi di progetti per produrre 3500 MW/h da fonti rinnovabili, che sono stati colpiti dalla crisi attuale".

Il governo cubano approvò nel 2014 la "Politica per lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e l'uso efficiente dell'energia entro il 2030", che mira a ridurre gradualmente l'uso di combustibili fossili con l'obiettivo che il 24% dell'energia debba provenire da fonti pulite entro il 2030. Inoltre, questa politica è orientata a favorire gli investimenti stranieri, con progetti locali grandi e piccoli, con l'obiettivo di migliorare l'efficienza energetica e l'autosufficienza, con impianti collegati principalmente alla rete nazionale.

Secondo alcune stime, saranno necessari nei prossimi nove anni più di tre miliardi di dollari di finanziamenti per sviluppare 2000 MW/h di nuova capacità in fonti rinnovabili. Il decreto-legge n. 345 approvato nel 2019 sullo sviluppo delle fonti rinnovabili contiene incentivi per promuovere l'auto-approvvigionamento di energia pulita, la vendita di energia in eccesso alla rete nazionale, nonché agevolazioni tariffarie e fiscali per le persone fisiche e giuridiche che utilizzano queste fonti. Il decreto-legge propone, inoltre, l'installazione delle lampadine a LED più efficienti per i lampioni pubblici, la vendita di scaldabagni solari ed elettrodomestici efficienti, così come campagne pubbliche per l’educazione energetica.

Nel 2020, Cuba contava una capacità installata di quasi 300 MW/h di fonti rinnovabili, alcune installazioni sono state sostenute da progetti e istituzioni internazionali. Gli studi indicano che l'espansione delle fonti rinnovabili potrebbe ridurre l'uso di combustibili fossili nella produzione di elettricità di 2.3 milioni di tonnellate l'anno e potrebbe ridurre le emissioni di anidride carbonica di otto milioni di tonnellate.

Queste previsioni si scontrano, però, con il costo elevato delle tecnologie per produrre energia dalla luce del sole, dal vento, dall'acqua e dalla biomassa. Cuba mira a sviluppare tutte le fonti rinnovabili e il programma di energia solare è il più avanzato, considerato che è un paese in cui c’è una radiazione solare media alta, che supera i cinque kilowatt per metro quadrato al giorno. Alla fine di luglio, sono state pubblicate delle delibere che consentono alle persone di importare sistemi di energia solare, senza dazi doganali e senza fine di lucro, attrezzature, parti e componenti che generano o funzionano come fonti di energia rinnovabile.

Alcune catene di negozi vendono pannelli solari al prezzo di 1.500 dollari per unità, mentre i salari mensili dei cubani vanno dagli 87 ai 400 dollari. Anche se lo Stato può comprare l'energia in eccesso dai consumatori privati, le persone intervistate da Inter Press Service hanno detto che non vale la pena acquistare e installare un impianto fotovoltaico dato che occorrono diversi anni per recuperare l'investimento iniziale. L’altra questione in sospeso è la tecnologia per accumulare l'energia solare da utilizzare di notte.

Per leggere l'articolo originale: Cuba’s Power Crisis Drives Home Need to Accelerate Energy Transition


Le difficoltà dell'offerta dell'economica e il virus ostacolano la ripresa globale
The New York Times, 13 ottobre 2021

Un rapporto che monitora la situazione con attenzione, martedì ha avvertito che mentre l'economia mondiale stenta a trovare il giusto ritmo, la recrudescenza del coronavirus e le difficoltà presenti nelle catene di fornitura minacciano di frenare lo slancio della ripresa globale.

Nell'ultimo Rapporto sulle prospettive economiche mondiali, il Fondo Monetario Internazionale ha detto che il tasso di crescita globale quest'anno si attesterà attorno al 6%, un livello storicamente alto dopo una recessione, ma la crescita rispecchia una grande differenza tra le fortune dei paesi ricchi e dei paesi poveri. La povertà mondiale, la fame e il debito ingestibile stanno aumentando.

Il livello di occupazione è sceso, specialmente per le donne, invertendo molte conquiste realizzate negli ultimi anni. L'accesso diseguale ai vaccini e all'assistenza sanitaria è al centro delle disuguaglianze economiche. Mentre il richiamo vaccinale sta diventando disponibile in alcuni paesi più ricchi, sorprende che il 96% delle persone nei paesi a basso reddito non siano state ancora vaccinate.

Gita Gopinath, il capo economista del FMI, ha scritto nel rapporto che "I recenti sviluppi hanno reso abbondantemente chiaro che siamo tutti sulla stessa barca e la pandemia non finirà finché non sarà finita ovunque".

Anche le prospettive per gli Stati Uniti, per l'Europa e le altre economie avanzate sono peggiorate. Le fabbriche, ostacolate dalle restrizioni legate alla pandemia e alle strozzature nei porti chiave di tutto il mondo hanno provocato carenze di approvvigionamento disastrose. La carenza di lavoratori in molte industrie sta contribuendo a creare difficoltà. Il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, martedì, ha riferito che 4.3 milioni di lavoratori hanno lasciato il lavoro ad agosto per passare o cercare lavori nuovi, o per uscire dalla forza lavoro.

L'affievolimento dei consumi e le grandi riduzioni delle scorte negli Stati Uniti, hanno indotto il FMI a ridurre le previsioni di crescita di luglio, che passano dal 7% al 6%. In Germania, la produzione industriale ha subito un colpo perché è difficile trovare le materie prime chiave. E le misure di confinamento durante l'estate hanno affievolito la crescita in Giappone.

Cresce il timore che l'inflazione aumenti, anche se probabilmente sarà temporaneo. Stanno aumentando i prezzi del cibo, dei medicinali e del petrolio, così come delle auto e dei camion. Inoltre, le preoccupazioni per l'inflazione potrebbero limitare la capacità dei governi a stimolare l'economia se un rallentamento dovesse peggiorare l'economia. Così com'è, l'inusuale impegno sostegno pubblico profusi negli Stati Uniti e in Europa si sta esaurendo.

"In generale, i rischi per le prospettive economiche sono aumentati e i compromessi politici sono diventati più complessi", ha dichiarato Gopinath.

Il FMI ha ridotto le previsioni di crescita globale per il 2021, che passano dal 6% al 5,9%. La povertà, la fame e il debito ingestibile sono tutti aumentati. Si stima che la crescita per il 2022 sarà del 4,9%.

Gregory Daco, capo economista americano di Oxford Economics, ritiene che la chiave per capire l'economia globale stia nello sfasamento della ripresa dei diversi paesi: "Ogni economia sta soffrendo o beneficiando dei propri fattori idiosincratici". Paesi come Cina, Vietnam e Corea del Sud, le cui economie hanno grandi settori manifatturieri, "l'inflazione li colpisce dove fa più male", ha detto Daco, aumentando i costi delle materie prime che si ripercuoteranno lungo il processo di produzione.

La pandemia ha sottolineato come il successo o il fallimento economico in un paese possa avere ripercussioni in tutto il mondo.

Le inondazioni nello Shanxi, la regione mineraria della Cina, e i monsoni negli stati produttori di carbone dell'India contribuiscono ad aumentare i prezzi energetici. L'epidemia de Covid-19 a Ho Chi Minh City che ha causato la chiusura delle fabbriche significa che i commercianti di Hoboken non avranno scarpe e maglioni da vendere.

Il FMI ha avvertito che se il coronavirus, o le sue varianti, continuassero a campeggiare nel mondo, potrebbero ridurre, nei prossimi cinque anni, la produzione mondiale stimata in 5.3 trilioni di dollari.

L'impennata mondiale dei prezzi energetici minaccia di imporre ulteriori difficoltà alla ripresa. Questa settimana, i prezzi del petrolio hanno raggiunto negli Stati Uniti il livello più alto in sette anni.

Gli europei si preoccupano che con l'avvicinarsi dell'inverno i costi del riscaldamento saliranno alle stelle quando le temperature scenderanno. In alcune realtà, le carenze sono state così profonde tanto da causare il blackout, la paralisi del trasporto, la chiusura delle fabbriche e la minaccia alla sicurezza alimentare.

In Cina, l'elettricità è stata razionata in molte province e molte aziende stanno funzionando a meno della metà della loro capacità, provocando un rallentamento già significativo della crescita. Le riserve di carbone dell'India sono scese a livelli pericolosamente bassi.

Sei milioni di abitanti in Libano sono rimasti durante il fine settimana senza energia per più di 24 ore dopo che l'esaurimento delle riserve di carburante ha spento le centrali elettriche del paese. Il blackout è solo l'ultimo di una serie di disastri. La crisi economica e finanziaria del Libano è una delle peggiori al mondo registrate in 150 anni. I produttori di petrolio in Medio Oriente e altrove stanno traendo beneficio dall'aumento dei prezzi.

Molti paesi della regione mediorientale e del Nord Africa stanno ancora cercando di far riprendere le loro economie devastate dalla pandemia.

Secondo i nuovi rapporti aggiornati della Banca Mondiale, 13 dei 16 paesi di questa regione quest'anno avranno un tenore di vita inferiore a quello precedente l'epidemia, in gran parte a causa dei "sistemi sanitari sotto-finanziati, squilibrati e inadeguati". Altri paesi erano così oberati dal debito prima della pandemia che i governi sono stati costretti a limitare la spesa per l'assistenza sanitaria per ripagare i creditori stranieri.

In America Latina e nei Caraibi, si teme un secondo decennio di crescita zero come quello sperimentato dopo il 2010. In Sudafrica, oltre un terzo della popolazione è senza lavoro.

Un aggiornamento della Banca Mondiale ha avvertito che nell'Asia orientale e nel Pacifico, il "Covid-19 minaccia di creare per la prima volta in questo secolo una combinazione di crescita lenta e aumento della disuguaglianza". Le imprese in Indonesia, Mongolia e Filippine hanno perso mediamente il 40% o più delle vendite mensili. Si stima che la Thailandia e molte economie delle isole del Pacifico produrranno nel 2023 a meno di quanto producevano prima della pandemia.

Nel complesso, però, alcune economie dei paesi in via di sviluppo stanno facendo meglio dello scorso anno, dovuto, in parte, all'aumento dei prezzi delle materie prime come il petrolio e i metalli che producono. Le previsioni di crescita aumentano leggermente al 6,4% nel 2021 rispetto al 6,3% stimato a luglio. Le proiezioni di crescita sono salite leggermente al 6,4% nel 2021 rispetto al 6,3 per cento stimato a luglio.

"La ripresa è stata incredibilmente irregolare", e questo è un problema per tutti, ha detto Carl Tannenbaum, capo economista alla Northern Trust. "I paesi in via di sviluppo sono essenziali per l'economica globale". Il FMI ha avvertito che le previsioni sono offuscate dall'incertezza. Le decisioni politiche sbagliate, come il ritardo con cui il Congresso deve decidere di innalzare il tetto del debito, possono ulteriormente rallentare la ripresa.

Ma il rischio maggiore è l'emergere di una variante del coronavirus più contagiosa e mortale.

Gopinath del FMI ha chiesto che i produttori di vaccini sostengano l'espansione della produzione di vaccini nei paesi in via di sviluppo.

Il FMI ha approvato, all'inizio di quest'anno, 650 miliardi di dollari di riserve monetarie di emergenza che sono state distribuite ai paesi di tutto il mondo. Nell'ultimo rapporto, il FMI ha nuovamente chiesto ai paesi ricchi di contribuire ad assicurare che questi fondi siano utilizzati per avvantaggiare i paesi poveri che hanno affrontato maggiori difficoltà con le conseguenze del virus.

David Malpass, il presidente della Banca Mondiale, ha detto: "Stiamo assistendo a quella che chiamo tragica inversione delle molte dimensioni dello sviluppo". "Il progresso in materia di riduzione della povertà estrema è stato riportato indietro di anni, per alcuni, di un decennio".

 Per leggere l'articolo originale: Supply gridlock and virus hinder global recovery


La risposta dei parlamentari a quella che potrebbe essere la crisi più grande dal dopoguerra è disdicevole, ma potrebbe essere solo l’inizio
The Guardian, 12 ottobre 2021

Forse non è stata l’inchiesta pubblica immediata voluta dai partiti dell’opposizione e dalle famiglie in lutto, ma il rapporto congiunto del Regno Unito, vara pietra miliare sulla gestione del Covid, si è rivelato avere meno armi spuntate di quanto si temesse. Pubblicato quasi dopo un anno dall’annuncio fatto inizialmente dal primo ministro, il rapporto sulle “lezioni apprese fino ad oggi”, preparato da due comitati dei Comuni dopo aver tenuto sessioni di prove lunghissime, non è privo di lezioni da trarre, alcune delle quali sono state espresse con particolare franchezza.

Il ritardo con cui è stato imposto il primo confinamento la scorsa primavera è stato “uno dei più grandi fallimenti per la salute pubblica che il Regno Unito abbia mai conosciuto”. La previsione di un possibile focolaio di virus sapeva di “eccezionalità britannica”, la mancanza di capacità di realizzare test rapidi è stato “un fallimento quasi impensabile”.

Le accuse continuano lungo le 151 pagine del rapporto, l’unico elemento risparmiato alle accuse mosse alla risposta data alla pandemia è stato il lancio della campagna vaccinale. I due comitati, il comitato per la salute dei Comuni e il comitato per la scienza e la tecnologia hanno una composizione bipartisan, in quanto accolgono laburisti e membri del Partito Nazionale Scozzese oltre ai conservatori. Alla loro guida ci sono due ministri Tory, Jeremy Hunt e Greg Clark.

Clark, segretario al commercio nel Governo di Theresa May, spinto da Boris Johnson a restare nelle ultime fila, non dovrebbe ritornare alla vita ministeriale e ha investito politicamente relativamente poco nelle questioni esaminate. Invece, Hunt è stato segretario alla salute tra il 2012 e il 2018 ed ha svolto un ruolo centrale nella gestione delle pandemie. Non ha rinunciato del tutto all’idea di ritornare nuovamente al governo, o di concorrere nuovamente per diventare il leader dei Tory, e avrebbe, quindi, un interesse particolare a non irritare eccessivamente Boris Johnson o, in generale, i parlamentari conservatori.

I liberali democratici avevano manifestato preoccupazione per la partecipazione di Hunt alla gestione della pandemia, compreso il rapporto del 2016 relativo allo scoppio di un virus respiratorio, i cui dettagli sono stati svelati soltanto dal Guardian la settimana scorsa. I parlamentari dell’opposizione hanno riferito che, mentre il rapporto finale presentato martedì è stato molto critico nei confronti dei ministri e degli scienziati, le versioni iniziali, soprattutto le conclusioni del rapporto, erano notevolmente meno accusatoria quando sono state presentate la prima volta. Ci sono volute molte ore di dibattito “robusto” per concordare una formulazione finale.

E' normale che vi siano discussioni tra le diverse parti, ma la posta in gioco di questo rapporto era alta: il primo tentativo ufficiale di assegnare alcune responsabilità su quella che è stata probabilmente la crisi più grande dal dopoguerra, nella quale il Regno Unito ha registrato decisamente punti peggiori su diversi parametri rispetto ai paesi vicini. I partiti dell’opposizione ritengono che il rapporto dei comitati abbia dimostrato a cosa si può arrivare con studi realizzati in tempi così rapidi, ma dovrebbe essere visto solo l’inizio di un processo.

Johnson ha promesso di realizzare un’inchiesta pubblica completa sulla pandemia, ma questa non inizierà prima della primavera del 2022. Questo ritardo ha spinto Hunt a Clark ad avviare il processo per evitare errori in futuro. Tuttavia, il rapporto ha una portata limitata ed è costellato da compromessi politici. Le numerose carenze che si delineano sono generalmente istituzionali. Non c'è nulla nel rapporto che possa affrettare la fine di una carriera ministeriale, o persino sollecitare un'interrogazione urgente in Parlamento. "Questo non basta", ha detto un parlamentare che ha partecipato al processo. "Scoprire chi ha sbagliato lo dobbiamo alle famiglie di coloro che sono morti. E questo ha bisogno di un'inchiesta pubblica".

Per leggere l'articolo originale: MPs’ answer on what may be biggest crisis since the war are damning, but may be just a start


Il bisogno di proteggere
The Economist, 9 ottobre 2021

Il 19 agosto, Thai, la rappresentante al commercio degli Stati Uniti, ha avuto successo. Nei due giorni precedenti, migliaia di produttori di camioncini a Silao, in Messico, hanno votato contro la rappresentanza sindacale, replicando la votazione precedente di aprile che non era stata né libera, né equa. Tai stava combattendo per i propri interessi. A maggio ha attivato il "meccanismo di risposta rapida" dell’accordo commerciale tra America, Canada e Messico, Usmca, che avrebbe potuto introdurre dazi del 25% sulle esportazioni verso l'America, o peggio. Il voto le ha mostrato che la minaccia aveva prodotto "risultati rapidi e significativi ai lavoratori".

Il caso fa parte di un cambiamento dell'uso della politica commerciale come strumento per scoraggiare le violazioni dei diritti umani. Questo cambiamento è guidato dall'America e sta avvenendo in tre modi: con accordi commerciali reciproci come l'Usmca; con accessi speciali che i paesi più ricchi concedono ai paesi più poveri; e, in modo esplosivo, con divieti unilaterali. Da lungo tempo i paesi ricchi si lamentano delle norme deboli in materia di lavoro nei paesi poveri. Ma quando si tratta della questione più circoscritta dei diritti umani, questi si traducono in azione.

Negli ultimi vent’anni gli accordi commerciali reciproci hanno previsto disposizioni in aumento in materia di lavoro, diritti alla contrattazione collettiva, lavoro forzato, lavoro minorile e discriminazione sul lavoro. Le prove che questi diritti siano stati effettivi sono scarse. Uno studio del 2021 relativo all'impatto delle disposizioni non commerciali dell'Unione europea non ha riscontrato alcun effetto coerente sul rispetto dei diritti dei lavoratori. In alcuni casi l'offerta di un accordo commerciale con l'America è sembrata efficace nell'incoraggiare i partner commerciali ad approvare le riforme del lavoro, per bloccarsi dopo la firma dell'accordo.

Per gli attivisti sindacali, c'è una spiegazione ovvia: gli impegni virtuosi incorporati negli accordi commerciali mancano di incisività. L'America, che vanta il linguaggio più duro nei suoi accordi, ha perso l'unica controversia che ha presentato, dal momento che, sebbene il governo guatemalteco non avesse fatto rispettare le leggi sul lavoro, non lo aveva fatto in modo da condizionare il commercio. L'Unione europea, che applica gli accordi commerciali con il dialogo e dichiarazioni severe, ha lottato per convincere il Vietnam a rispettare gli impegni sindacali assunti di recente, nel giugno 2019.

Le ragioni contro le sanzioni spesso si trasformano in accuse di vecchie ingerenze coloniali negli affari sovrani dei paesi, di lavoratori vulnerabili che perdono il lavoro e di abusi da parte di interessi protezionistici. Ma la Commissione europea sta rivedendo i suoi accordi commerciali per prendere in considerazione le sanzioni se i paesi non rispettano i loro impegni o (come suggerito da francesi e olandesi nel 2020) per presentare, come ricompensa, tagli dei dazi per aver proseguito le riforme. L'America è più avanti con l'Usmca, accordo che è stato attuato nel luglio 2020 e prevede maggiore facilità per la risoluzione delle controversie, nonché un meccanismo di risposta rapida. Eric Gottwald, esperto di commercio presso il sindacato americano Afl-Cio, respinge le preoccupazioni sul protezionismo come "modo semplice per liquidare il lavoro che stiamo facendo", lavoro che si occupa di concorrenza sleale e tutela dei diritti umani dei messicani.

Il rappresentante al commercio degli Stati Uniti d’America vede l'applicazione dell'accordo Usmca parte fondamentale della "politica commerciale incentrata sui lavoratori" degli Stati Uniti e si vanta che sta già dando risultati. Oltre al voto espresso a Silao, ad agosto ha annunciato di aver utilizzato il meccanismo di risposta rapida per difendere i diritti dei lavoratori presso un produttore messicano di componenti auto, raggiungendo un accordo sulla restituzione delle loro paga e “un impegno alla neutralità nelle future elezioni sindacali”. A volte questo sembra assecondare le componenti politiche interne, primo fra tutte il sindacato americano Afl-Cio. E non è ancora chiaro fino a che punto l’uso del meccanismo rafforzi le riforme del lavoro in Messico. Una relazione di luglio sul monitoraggio svolto ha evidenziato che, sebbene il governo messicano stesse rispettando i propri obblighi come parte dell'accordo Usmca, “restano da attuare” molti dei cambiamenti promessi.

I funzionari della rappresentanza al commercio degli Stati Uniti si aspettano che aumenti il volume degli esposti man mano che i difensori del diritto del lavoro in America e Messico impareranno come presentarli, ma sperano che gli esposti diminuiscano man mano che le istituzioni messicane fanno progressi. Questo non è molto confortante per le aziende che sono preoccupate per l'interruzione delle catene di fornitura. La Camera di Commercio degli Stati Uniti ha lamentato mancanza di chiarezza sull'applicazione dell’accordo, che potrebbe portare a bloccare i prodotti alla frontiera entro 120 giorni dalla presentazione di un esposto. "I regolamenti sono chiari", afferma un funzionario della rappresentanza al commercio degli Stati Uniti. Se le aziende non sono sufficientemente consapevoli che i diritti nelle loro strutture messicane devono essere rispettati, aggiunge il funzionario, "mi dispiace che non si abbia la certezza" del rispetto dei diritti.

Il secondo modo con il quale i governi inaspriscono le sanzioni per violazione dei diritti umani è attraverso accordi commerciali non reciproci tra paesi ricchi e paesi poveri. L'Unione europea sta rafforzando il sistema di preferenze generalizzate, che condiziona i tagli dei dazi ai paesi in via di sviluppo al rispetto di una serie di norme sul lavoro e a migliori diritti umani. Questo dovrebbe significare condizioni più rigorose e un monitoraggio più accurato. Nel 2017 l'amministrazione Trump annunciò un approccio più "proattivo" all'applicazione della legge, e, in seguito, avviò indagini sui diritti dei lavoratori in Azerbaigian, Bolivia, Eritrea e Zimbabwe. Alla scadenza dello schema, nel dicembre del 2020, il Congresso americano ha discusso le condizioni da aggiungere, tra queste la non discriminazione e l'emancipazione delle donne.

Le prove che questo tipo di applicazione migliori effettivamente il rispetto dei diritti umani sono scarse, anche se nel caso dell'Unione europea questo potrebbe dipendere dal fatto che è stato usato raramente, e in America gli incentivi sono attenuati dalla scadenza dello schema che avviene a distanza di pochi anni. In teoria, l’introduzione di troppi vincoli potrebbe essere controproducente. Il dipartimento per il commercio internazionale della Gran Bretagna sta considerando la possibilità di ridurre il numero di convenzioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro che i paesi in via di sviluppo devono ratificare per ottenere un maggiore accesso all’applicazione della convenzione, sulla base del ragionamento che se le condizioni saranno più facili da rispettare i governi probabilmente faranno maggiori sforzi.

Queste due svolte negli accordi commerciali sono state spinte in gran parte dalle dinamiche politiche nei paesi ricchi, nel senso che sono necessarie per sostenere il sostegno al libero scambio. La terza forma ha un’origine diversa, nello Xinjiang, in Cina, dove un vasto numero di uiguri, un gruppo etnico prevalentemente musulmano, è detenuto nei campi e costretto a lavorare. Molti vengono anche mandati a lavorare in fabbriche e fattorie fuori dallo Xinjiang. Dal momento che la Cina non consente ispezioni del lavoro indipendenti e senza restrizioni nei campi o nelle fabbriche in cui c’è il sospetto che sia utilizzato il lavoro forzato, è impossibile misurare l'entità del problema.

La tristezza dello Xinjiang

I governi nel mondo si stanno coordinando nel tentativo di dire alle imprese di uscire dallo Xinjiang, in Cina. I capi di Stato e di Governo del G7 hanno espresso, a giugno, comune preoccupazione per il lavoro forzato utilizzato nelle catene di fornitura, "compreso il settore agricolo, fotovoltaico e dell'abbigliamento", tutte aree di attività nella provincia dello Xinjiang. A luglio le agenzie governative americane, tra cui i dipartimenti dello Stato, del Tesoro e del Commercio, hanno formalmente informato le imprese, le cui catene di fornitura sono nello Xinjiang, dei rischi per coloro che investono nell’area. Anche le imprese giapponesi sono state avvertite dal governo di prestare attenzione alle catene di fornitura.

I governi stanno spingendo contemporaneamente le aziende a raccogliere più informazioni sulle loro catene di fornitura e ad affrontarle da soli. Dopo sforzi simili profusi dai francesi e dai tedeschi, l'Unione europea sta lavorando su una legge sulla "due diligence" che obblighi le aziende a verificare che le loro operazioni e i loro fornitori non stiano violando i diritti umani. Le autorità americane della dogana e della protezione delle frontiere hanno iniziato a interrogare sulla questione gli importatori delle loro catene di fornitura e i ministri del commercio del G7 stanno discutendo i modi per aiutare le piccole imprese a segnalare quali fornitori operano in luoghi problematici.

Queste richieste stanno facendo aumentare i divieti, in atto o in fase di elaborazione. L'America è, ancora una volta, in prima linea, poiché una modifica della legge nel 2015 ha permesso alle autorità americane della dogana e della protezione delle frontiere di bloccare le importazioni sospettate di essere state prodotte con il lavoro forzato, sempre che l'importatore non dimostri il contrario. Le autorità americane della dogana e della protezione delle frontiere, tra il 1953 e il 2016, hanno emesso 58 "ordini di sospensione" dei prodotti. Solo nel 2020 sono stati emessi 15 ordini e quest'anno altri cinque, che interessano prodotti come il cotone, i pomodori e prodotti a base di silice di alcuni fornitori cinesi. Questo significa che gli ordini riguardano anche le magliette prodotte con il cotone illecito, i pannelli solari o i semiconduttori realizzati con la silice illecita.

Il Congresso sta portando avanti un disegno di legge per bloccare tutte le importazioni dallo Xinjiang a meno che gli importatori non dimostrino che siano stati prodotti senza il lavoro forzato, un ostacolo grande. Il Canada e il Messico si sono impegnati a vietare i propri prodotti. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha promesso di recente che proporrà di vietare le importazioni prodotte con il lavoro forzato. Il Senato australiano ha approvato, ad agosto, un disegno di legge che vieta tutti i beni prodotti in parte o per intero con il lavoro forzato, sebbene il senatore Eric Abetz abbia rappresentato la posizione del governo quando ha affermato che "il mio cuore dice di sì a questo disegno di legge, ma la ragione dice di no".

L'obiettivo non sembra essere quello di eliminare la concorrenza sleale, bensì di porre le basi morali per bloccare le merci prodotte in condizioni di lavoro tremende. La difficoltà più grande sta nel sapere quali prodotti fermare. È abbastanza semplice sequestrare le materie prime spedite direttamente dallo Xinjiang, ma è molto più complicato bloccare i prodotti quando le violazioni dei diritti del lavoro si verificano nelle prime fasi della catena di fornitura. Lo Xinjiang produce circa il 20% del cotone mondiale e nel 2020 ha prodotto il 50% del polisilicio mondiale, un elemento per la produzione di pannelli solari. Da ottobre 2020, sono stati trattenuti solo 370 milioni di importazioni nell’ambito degli “ordini di sospensione” (rispetto a una media annuale di 1 milione di dollari tra ottobre 2016 e ottobre 2019). Ma il campo di applicazione del divieto potrebbe essere maggiore se il divieto fosse applicato rigorosamente.

Ci sono esempi in cui i divieti di importazione hanno modificato il comportamento. Nel 2020 le autorità americane della dogana e della protezione delle frontiere hanno emesso ordine di sospensione contro Top Glove in Malesia, il più grande produttore mondiale di guanti di gomma. Due settimane dopo l'azienda ha accettato di rimborsare le commissioni per l’assunzione ai lavoratori e di migliorare la loro situazione. Eppure, meno di un anno dopo, le autorità americane della dogana e della protezione delle frontiere hanno emesso un altro ordine di sospensione contro le importazioni dalla stessa società. Uno studio del Modern Slavery & Human Rights Policy & Evidence Center è giunto alla conclusione che, nei casi in cui il paese sia una fonte considerevole di domanda, i divieti potrebbero impattare nel breve periodo (le spedizioni dalle due filiali colpite dal primo ordine di sospensione erano il 12,5% delle vendite dell’impresa), ma ha aggiunto che "ci sono ancora prove limitate sul loro impatto nel lungo periodo".

Sembra improbabile che i divieti cambino il comportamento del governo cinese, persino nel breve periodo. I suoi rappresentanti hanno reagito in modo furioso al consiglio dato alle imprese di dissociarsi. Le sanzioni applicate dall'America e dall'Unione europea contro individui e aziende legate al lavoro forzato hanno già provocato contro sanzioni da parte della Cina. Qualsiasi ripercussione economica può essere solo temporanea. L'offerta di polisilicio dal resto della Cina sta crescendo così velocemente che potrebbe ragionevolmente soddisfare tutta la domanda estera.

Con l'aumento di questo tipo di controllo, i responsabili politici devono affrontare la dura realtà del monitoraggio e della raccolta di prove mentre studiano ciò che stanno effettivamente conseguendo. Escludere i beni contaminati da illeciti dai mercati può essere sufficiente, nel caso in cui le azioni del Partito Comunista Cinese sono un crimine contro l'umanità. Ma in altri casi più nebulosi, potrebbero non esserlo e le restrizioni commerciali, come risposta semplice a un problema complesso, potrebbero facilmente fallire. Tale rischio si applica a tutti gli effetti all'uso della politica commerciale come strumento per promuovere il rinverdimento.

Per leggere l'articolo originale :The urge to protect