Per la prima volta vietate del tutto le manifestazioni di cinesi per celebrare il massacro di Tiananmen
The Guardian, 4 giugno 2021

Per la prima volta dal massacro di Piazza Tiananmen del 1989, non si terrà nessun evento celebrativo formale nel mondo di lingua cinese. Dopo trentadue anni dalla repressione militare della protesta studentesca a Pechino e dopo l’uccisione di centinaia di migliaia di persone, la censura, la repressione del governo del dissenso e le restrizioni dovute alla pandemia messe assieme non permetteranno assembramenti fisici organizzati nella Repubblica Popolare Cinese, a Hong King, a Macao o a Taiwan.

La commemorazione dei violenti fatti del 4 giugno non è mai stati permessa nella Repubblica Popolare Cinese, dove sono stati ufficialmente cancellati. Ogni anno, in questi giorni la censura aumenta: parole, numeri, fotografie, simboli, emoticon sensibili, ogni cosa che possa fare riferimento ai fatti del 4 giugno scompare online. Gli attivisti per i diritti umani sono allontanati dietro il preteso delle ferie obbligatorie, gli eventi online sono bloccati e la sicurezza nella Piazza di Pechino si inasprisce. Ma i tentativi del governo di cancellare la commemorazione dell’evento si sono estesi a Hong Kong, che ha tenuto con orgoglio, ogni anno, dal 1990, una delle più grandi veglie consentite sul territorio cinese.

L’ultima veglia consentita dalla legge è stata tenuta due anni fa ad Hong Kong e a Macao. Nel 2020 e anche quest’anno, le autorità di Hong Kong hanno ricordato le misure contro la pandemia per vietare tali eventi. Lo scorso anno, migliaia di persone parteciparono alla veglia a Hong Kong sfidando il governo, ma oggi le autorità ricorrono alla legge per la sicurezza nazionale come ulteriore controllo. Le autorità di Macao hanno citato in particolare le leggi penali. 

Gli attivisti per i diritti umani di Hong Kong hanno accusato nuovamente le autorità di utilizzare la crisi sanitaria per imbavagliare il dissenso, soprattutto se si considera il numero basso di contagi, e i grandi eventi pubblici recenti organizzati, come Art Basel.

Facendo riferimento alle ordinanze pubbliche che vietano gli assembramenti fisici e la legge per la sicurezza nazionale, l’ufficio per la sicurezza della città ha riferito questa settimana che chiunque partecipi alla veglia, o la promuova, potrebbe essere condannato a cinque anni di prigione.

Secondo i media locali, la polizia di Hong Kong dispone di 3.000 agenti antisommossa pronti nel caso in cui ci fossero venerdì tentativi di assembramento. Il museo del 4 giugno di Hong Kong ha chiuso questa settimana per essere stato sospettato dalle autorità di violare le regole sull’intrattenimento pubblico. Ha aperto per soli tre giorni dai lavori di ristrutturazione, duranti i quali, secondo l’Ong Alleanza di Hong Kong, che mantiene vivo il ricordo della responsabilità del massacro, ha ricevuto 550 visitatori.

La storia è dalla nostra parte

William Nee, ricercatore presso China Human Rights Defenders, ha detto: “Il fatto che le autorità reprimano duramente la veglia annuale su Tiananmen a Hong Kong, che è stato l’unico luogo del territorio cinese in cui le persone potevano commemorare liberamente le vittime di Tiananmen, per molte persone è importante fare piccole veglie diffondendole sui social media. “Purtroppo, è questo l’unico modo con cui le persone possono continuare a ricordare i morti e a a fare pressione per ottenere giustizia”.

Sebbene migliaia di persone avessero partecipato alla veglia a Hong lo scorso anno, 24 personalità impegnate a favore della democrazia furono arrestate, tra queste Joshua Wong, Lee Cheuk Yan, e Albert, con l’accusa di aver organizzato un’assemblea non autorizzata. Lee, che era presente al massacro di Pechino, dichiarò lo scorso anno al Guardian di non voler affievolire nella notte la luce delle candele nel parco.

Quest’anno, sono tutti in prigione e l’alleanza ha preso pubblicamente le distanze da ogni eventuale assembramento fisico, e ha detto che non ci saranno eventi online, temendo che le autorità potessero interpretarli come un’assemblea pubblica non autorizzata. L’alleanza di Hong Kong ha dichiarato: “In queste circostanze, commemoriamo il 4 Giugno a modo nostro, al momento e nel luogo giusto, in modo che la verità non sia cancellata”.

Dato che Hong Kong è diventato un santuario per coloro fuggiti dal continente, Taiwan ha accolto molti che sono fuggiti da Hong Kong. Negli anni precedenti, i politici dei due schieramenti in favore della democrazia a Taiwan hanno parlato per commemorare il 4 Giugno e per protestare contro la violenza dello stato cinese.

Questa settimana il deputato del Partito Democratico Progressista al governo, Hung Sun-han, ha dichiarato: "Quest'anno sono 32 anni dal massacro di Tiananmen, ma il PCC Partito Comunista Cinese non si è mai scusato e non ha risarcito le vittime". Nel 2019, il presidente Tsai Ing-wen fece infuriare Pechino per aver incontrato come primo premier taiwanese gli attivisti cinesi presenti in quel momento nel paese. Ma anche a Taiwan non ci sarà alcun evento commemorativo, a causa del periodo pessimo e non della repressione del governo. Per la prima volta dall'inizio della pandemia, l'isola ha conosciuto un'epidemia di massa e ha limitato tutti gli assembramenti all'aperto a un massimo di 10 persone.

Invece, per celebrare il 4 Giugno, un'alleanza di quasi 30 gruppi con sede a Taiwan ha annunciato un evento online per venerdì, e l'istallazione di un grande schermo Led in piazza della Libertà di Taipei, dove saranno trasmessi messaggi sull'anniversario, così come altri eventi tenuti online in modo da rispettare restrizioni sugli assembramenti.

Per Badiucao, artista cinese australiano il cui lavoro è spesso incentrato sul massacro, e che parlerà a due eventi online, "Dopotutto gli eventi online non sono del tutto una cosa negativa". "La forma tradizionale di essere presenti fisicamente in un luogo è sicuramente molto potente, e ne siamo stati testimoni a Hong Kong ogni anno... ma penso che debbano essere inventate nuove forme, specialmente in questo tempo di così tante incertezze". Ha detto che gli organizzatori dell'evento di Taiwan lo vedono come "una possibilità per dare continuità a ciò che non può più essere fatto a Hong Kong, o almeno ciò che non lo si può fare in modo sicuro".

Rowena Xiaoqing He, autrice di “Tiananmen Exiles: Voices of the Struggle for Democracy in China”, ha detto che la veglia al Victoria park di Hong Kong è un'icona come l'immagine storica del "Rivoltoso sconosciuto" davanti al carro armato che ricorda l'atrocità del 4 Giugno.

"Sono trascorsi due anni dalle veglia autorizzata del 2019 ed eccomi qui a Hong Kong, non possiamo nemmeno avvicinarci al parco senza aver paura per il 4 giugno", ha detto al Guardian. " Quest’anno Victoria Park sarà senza candele. Ma una cosa che ho imparato in vent’anni di studio su Tienanmen è che c'è sempre una luce nei nostri cuori che non può essere inghiottita dall'oscurità. La storia è dalla nostra parte".

Per leggere l'articolo originale:  Chinese gathering to mark the Tiananmen massacre wholly banned for the first time


Ecco arrivare la crisi mentre la pandemia si placa
Politico.eu, 2 giugno 2021

I sintomi peggiori degli effetti del Covid-19 sull’economia potrebbero non apparire fino a quando il virus non sarà regredito. La pandemia e le chiusure hanno accelerato in tutta Europa tendenze come l’automazione e la disuguaglianza economica. Allo stesso tempo, hanno per lo più congelato i conflitti politici, lasciando sobbollire le tensioni esistenti.

Gli aiuti urgenti al reddito, i divieti di sfratto, il dilazionamento dei prestiti, queste misure temporanee hanno tamponato parte delle perdite provocate dalla crisi mondiale più grande dalla Seconda guerra mondiale. Ma i conti da pagare arriveranno proprio quando gli aiuti finiranno, il che vuol dire che “l’estate della ripresa” rischia di diventare un lungo inverno segnato da un maggiore divario di reddito e dalla conflittualità sociale.

Mentre le economie escono dalla pandemia, i politici devono far fronte ad una scelta difficile: alleviare le sofferenze di coloro che sono stati più colpiti dalla pandemia oppure utilizzare il fiume di danaro inedito per il passaggio a un futuro più verde e tecnologico.

Se l’inverno dell’economia morde, come prevedono molti economisti, l’opinione pubblica ne terrà conto nella scelta che farà, alle elezioni o, in mancanza di queste ultime, nelle strade. Secondo una recente analisi del Fondo Monetario Internazionale, le tensioni sociali sono aumentate come conseguenza di altre recenti pandemie, raggiungendo mediamente il picco due anni dopo la fine della minaccia alla salute.

Questo articolo è il primo di una serie di articoli che esamina come il coronavirus abbia cambiato il mondo e che cosa possiamo aspettarci lungo la lunga strada della ripresa. Questa settimana analizziamo come la pandemia minaccia di allargare le disuguaglianze, con particolare attenzione al settore della ristorazione colpito duramente e alla generazione del coronavirus che si sta laureando per entrare nella forza lavoro.

Congelamento

Le disuguaglianze economiche sono state motivo di preoccupazione durante la pandemia, ma le azioni per contrastarle sono state poche. In Europa, le rivolte popolari come i Jilet Jaune in Francia, provocate dal piano verde di Emmanuel Macron per ridurre il consumo del gas tassandolo, e gli scioperi del settore pubblico contro le riforme del lavoro in Grecia sono caduti nel silenzio.

Allo stesso tempo, guardando ai principali dati sembra che le cose non vadano così male. Secondo Eurostat, ad esempio, le bancarotte sono svettate all’inizio della pandemia e continuano ad essere al di sotto del livello raggiunto alla fine del 2019. Inoltre, alcuni studi indicano che il divario retributivo sia diminuito durante la pandemia. È solo un miraggio.

Gli economisti dicono che la paura del contagio e le misure di emergenza che hanno permesso alle autorità di limitare gli spostamenti dei cittadini hanno interrotto le proteste nelle strade, ma non le ragioni delle loro rivendicazioni. Queste starebbero solo peggiorando: più del 40% dei 25.000 intervistati in una ricerca dell’Ocse condotta in 25 paesi, hanno conosciuto una sorta di disagio collegato al lavoro a causa del coronavirus, tra cui la riduzione della paga e la cassa integrazione. Fino a questo momento, gli aiuti di emergenza e le protezioni dalla bancarotta hanno nascosto il costo reale della pandemia, che ha fermato principalmente il lavoro prevalentemente a bassa qualifica dei settori manifatturieri.

“Quando i programmi di aiuto finiranno, allora vedremo l’impatto reale”, ha affermato José García-Montalvo, professore ricercatore presso Barcelona Graduate School of Economics. La disuguaglianza dei redditi ha raggiunto il picco in Spagna durante le prime sei settimane delle chiusure imposte nella scorsa primavera, mentre scompariva il turismo. Il piano di soccorso di emergenza di Madrid decise di dare ai lavoratori in cassa integrazione il 70% del loro reddito, riducendo il divario, anche se non al livello precedente.

Il governo sta discutendo se continuare a dare quest’assistenza fino a settembre, ma sussiste ancora il problema di come molti di questi 600.000 lavoratori in cassa integrazione non saranno licenziati. “Non abbiamo ancora visto la fine della crisi”, ha affermato García Montalvo. D’altro canto, il 2020 è stato un anno buono per i conti correnti delle persone ricche che hanno potuto continuare a lavorare, ma che non hanno potuto spendere il loro salario. Secondo una stima, la ricchezza finanziaria della Francia è di 50 miliardi di euro più alta rispetto alla situazione in cui non c’era la pandemia. Circa il 50% della liquidità in eccesso è andato al 10% più ricco. I debiti sono aumentati per il 10% più povero.

Per quanto sia stato orribile il Covid-19 con i suoi 3.4 milioni di morti nel mondo, non è la peste nera. La morte di circa la metà della popolazione europea nel 14° secolo contribuì a spazzare via la ricchezza delle élite, e mentre riduceva la disponibilità di lavori non qualificati necessari per lavorare la terra, riduceva, così, nel tempo, la disuguaglianza.

La pandemia del coronavirus, invece, ha accelerato la domanda di lavoro altamente qualificato, che scarseggia. Nella regione belga delle Fiandre, soltanto il 74% degli adulti sono occupati. Ciononostante, i due terzi delle 600 aziende intervistate dall’associazione imprenditoriale Voka nel mese di maggio, ha risposto di incontrare difficoltà nel trovare candidati adeguati. L’associazione Voka ha chiesto ai governi di aumentare la formazione e gli incentivi.

La combinazione della disuguaglianza soggettivamente percepita e la perdita di reddito spinge alla protesta e alla tensione sociale, afferma Rui Xu, economista del Fmi, che ha analizzato le pandemie del passato. Poi la tensione sociale presenta il conto economico. “Così, una volta avviato il ciclo, l’effetto durerà più di uno o due anni”, ha affermato Xu. La sua analisi ha messo in guardia dal rischio di un “circolo vizioso”. Se si guardano ai danni provocati dalle altre recenti epidemie, tra cui la Sars, H1N1 e Zika, la produzione economica non solo è diminuita, ma è rimasta inferiore del 10% circa cinque anni dopo.

Xu e il suo co-autore, Tahsin Saadi, hanno osservato segnali di interventi politici che possono evitare alcune di queste tensioni, ma non è affatto chiaro quali di questi segnali funzionino meglio. I legiferatori di Bruxelles e delle capitali europee potrebbero attivare un piano prima che il database del Fmi presenti delle risposte.

Fattori aggravanti

Oltre ai precedenti storici, ci sono molte ragioni per cui questa pandemia potrebbe esercitare sui paesi una pressione inedita. Non solo il coronavirus ha paralizzato la società, ma ha accelerato le tendenze destabilizzanti dell’automazione e della digitalizzazione. I robot hanno dimostrato di avere un altro pregio rispetto alle loro controparti umane soggette all’errore e che richiedono uno stipendio: sono immuni al virus (almeno ai virus biologici).

Le aziende che si preparano ad affrontare la prossima pandemia stanno realizzando investimenti nel lungo termine nei macchinari della fabbrica, mentre i servizi digitali per le riunioni sono destinati a conservare i posti di lavoro dei colletti bianchi. Un’analisi realizzata in Italia, dove si stima che l’1 - 7% abbia adottato il telelavoro prima che il paese fosse devastato dalla pandemia, ha rilevato che la “nuova normalità” con gli uffici a casa favorisce “gli impiegati maschi, più anziani, con un livello alto di istruzione ed uno stipendio alto”.

Le conseguenze per l’apprendimento degli studenti a distanza sono altrettanto disuguali. L’educazione per la prima infanzia, cruciale per sviluppare le competenze chiave per la mobilità sociale, non è facilmente implementabile su Zoom. Per di più, uno studio in Germania ha rivelato che con l’apprendimento a distanza i bambini hanno speso ogni giorno solo la metà del tempo per l’apprendimento, i bambini che avevano già voti bassi, hanno perso mediamente mezz’ora in più rispetto ai più bravi.

Il fatto che il Covid-19 abbia colpito con maggiore durezza le persone povere complicherà la loro ripresa economica. Le persone che vivono in spazi angusti, che dovevano presentarsi al lavoro, sono più inclini al contagio, e presentano condizioni preesistenti che potrebbero aggravare la malattia.

La condizione socioeconomica è, inoltre, legata alle loro attitudini verso i vaccini e alla possibilità di essere vaccinati. Uno studio condotto nel Regno Unito sugli adulti in età lavorativa ha riscontrato che il tasso di esitazione nei confronti del vaccino è del 12 – 14% tra coloro che guadagnano meno di 30.000 sterline l’anno, rispetto ad appena il 5% di coloro che guadagnano più di 40.000 sterline l’anno.

Le chiusure, inoltre, hanno avuto pesanti ripercussioni sulla salute mentale. Uno studio in Austria ha constatato che dopo appena quattro settimane di chiusura, la depressione e l’insonnia sono aumentate riguardando tutti, ma gli adulti al di sotto dei 35 anni, le donne i poveri e i disoccupati sono stati colpiti in modo particolarmente duri. L’economista di Harvard, Stefanie Stantcheva osserva che questo può “aggravare le difficoltà a cercare lavoro”.

Una volta in una generazione

Gli effetti che ne conseguono dalla pandemia potrebbero incidere sulla politica quanto sul Covid-19 stesso. Nonostante le decantate reti di sicurezza sociale degli stati sociali europei, le protezioni non sono in realtà così forti.  Mark Pearson, vicedirettore Ocse per l’occupazione, il lavoro e gli affari sociali, riferisce i dati di 24 paesi, prevalentemente europei, secondo cui circa i due terzi delle persone che hanno perso il lavoro prima del Covid-19, non avevano in realtà diritto all’indennità di disoccupazione. Gli europei hanno capito. Mentre la crisi finanziaria del 2008 non ha fatto molto per cambiare le aspettative dei cittadini, relativamente alla protezione dall’incertezza finanziaria da parte dei governi, l’estesa diffusione della pandemia su vasta scala lo ha fatto: in media, il 68% degli intervistati per lo studio Ocse chiede che lo stato faccia di più.

Per Pearson, "Questa è stata la più grande crisi per le nostre società e le nostre economie dalla seconda guerra mondiale". Questo potrebbe significare che i politici potrebbero trovarsi presto di fronte a richieste di un maggiore intervento. "La risposta alla seconda guerra mondiale fu lo stato sociale".

A differenza dell'ultima crisi, quando i governi tendevano a stringere i cordoni della borsa, questa volta hanno aperto i rubinetti, come lo dimostra il fondo per la ripresa da 750 miliardi di euro dell'Unione europea, e gli aiuti da 900 miliardi di euro di Washington, così come gli oltre 3.000 miliardi di euro spesi dai governi nazionali dall'inizio della pandemia.

"Questo non è il momento di prendere soldi dai cittadini, ma di darli", ha detto Mario Draghi, l'ex presidente della Banca Centrale Europea, ora alla guida del governo italiano, mentre annunciava il mese scorso un nuovo pacchetto di aiuti da 40 miliardi di euro.

In Europa però, in particolare a Bruxelles, molti di quei soldi sono destinati non ad aiuti nell’immediato, ma a sforzi volti a rendere l'economia più verde per prepararla all'era digitale. I politici sono generalmente criticati per la loro miopia. Ma nell'usare gli incentivi post-covid come strumento per trasformare l'economia, Bruxelles rischia di sacrificare il presente al futuro, e, possibilmente, di scatenare una reazione. Il pacchetto per la ripresa è un'opportunità "una volta in una generazione ... per cercare di riorganizzare la struttura economica", ha detto Pearson, e il passaggio a un'economia verde è indispensabile. "Tuttavia, non sarà una fonte enorme di posti di lavoro". Ha aggiunto: "È un vero dilemma".

Per leggere l'articolo originale:   As the pandemic subsides, here comes the crisis

Il polso della strada in Brasile
El Pais, 1 giugno 2021

Molte delle 460.000 persone decedute a causa del Covid sarebbero ancora vive con un altro presidente in Brasile. Questa convinzione è il motivo principale per cui decine di persone sono scese in strada sabato, in piena pandemia, al grido di “Fora Bolsonaro”. La mobilitazione è una novità grande perché durante la crisi sanitaria, che in Brasile non si è placata, l’agitazione nelle strade ha indicato un malcontento crescente nei confronti di Bolsonaro, anche se ci sono stati atti periodici di sostegno al presidente di estrema destra. La sinistra brasiliana ha marciato in vista delle elezioni del 2022, ma come testimoniano alcuni proclami, alcuni non perdono di vista i forti segnali del malcontento popolare in Colombia o in Cile contro i governi di destra.

Da quando ha vinto le elezioni, Bolsonaro è stato il re indiscusso della mobilitazione popolare. Anche quando il Brasile è stato l’epicentro della pandemia nel mondo, ci sono state manifestazioni dei sostenitori del presidente contro le chiusure per il contenimento dei contagi. L’opposizione ha dovuto nel frattempo accontentarsi della protesta espressa con il fracasso di alcune pentole e padelle. Tutto, dalla mascherina al vaccino, si è trasformata in arma politica.

La prima dimostrazione di forza della sinistra ha riguardato decine di città. È stata particolarmente partecipata la manifestazione a San Paolo. La Avenida Paulista, principale strada in cui si tengono le manifestazioni del paese che misura l’umore politico, era piena di manifestanti con le mascherine, tra i quali non c’era l’ex presidente Lula da Silva, tornato sulla scena politica un paio di mesi fa.

La mascherina Ffp2 è stata una delle regole imposte dagli organizzatori della manifestazione. L’altra regola, il mantenimento della distanza tra i partecipanti per evitare la diffusione del coronavirus, non è stata rispettata nelle proteste. Le manifestazioni sono state pacifiche, ad eccezione di Recife, dove la polizia ha caricato violentemente, riattivando il dibattito sull’influenza del bolsonarismo sulle forze di sicurezza.

Il coronavirus sta ancora uccidendo 2.000 persone al giorno, mentre gli esperti mettono in guardia da una terza ondata, l’inflazione è alle stelle e la disoccupazione è in aumento.

Secondo i sondaggi sono questi gli ingredienti della miscela del malcontento che aumenta nei confronti del presidente. La sinistra brasiliana vi ha visto un’opportunità favorevole per accelerare il logoramento di Bolsonaro e cominciare a scaldare le strade. Il presidente brasiliano non ha mai avuto un sostegno così basso come ora, mentre Lula è in testa per la prima volta in alcuni sondaggi. A un anno e mezzo dalle elezioni presidenziali, la percentuale di coloro che lo rifiutano ha raggiunto il 54%, mentre quella di Lula il 36%.

Uno dei principali promotori delle marce è stato l’attivista Guilherme Boulos, la cui ascesa come dirigente nascente della sinistra è stata eclissata dal ritorno in politica di Lula. “Ovviamente, nessuno voleva scendere in strada nel mezzo della pandemia, ma la gente è arrivata per mancanza di un’alternativa e perché lottare per arrestare il genocidio è anche un servizio essenziale”, ha affermato Felipe Betim a El Pais, dopo la manifestazione di San Paolo che è stato un “successo”.

L’appello a manifestare è partito dai movimenti sociali, anche se avevano l’appoggio del Partito dei Lavoratori e di altri gruppi. Questo e il fatto che 48 ore dopo dai cortei nelle strade, Lula rimanesse in silenzio testimoniano il dilemma che il dirigente della sinistra sta affrontando e il blocco che guida.

Il Partito dei Lavoratori non ha dimenticato l’impeachment del 2016 di Dilma Roussef nel mezzo di proteste popolari, che considera un colpo di stato orchestrato dai politici con la complicità dei principali mezzi di comunicazione. Il partito ha firmato alcune petizioni di impeachment contro Bolsonaro, ma Lula è restio ad avviare l’iter per un impeachment che rischia di fallire. Il dirigente del Partito dei Lavoratori preferisce la strategia del logoramento fino al 2022 per poi vincere nelle urne. L’idea di chiedere ai suoi sostenitori di uscire per protestare dopo aver criticato per mesi Bolsonaro per aver creato assembramenti e contribuito a diffondere il coronavirus, non ha entusiasmato la formazione politica.

I manifestanti hanno ribadito le richieste di impeachment contro Bolsonaro. Le petizioni non mancano. Sulla scrivania del presidente della Camera dei Deputati ce ne sono a decine, ma finora non ne ha elaborato nessuna perché l’intesa tra i politici è che senza il consenso popolare non si avvia l’iter dell’impeachment. Inoltre, Bolsonaro sta corteggiando da mesi i partiti del Centrão (sempre disposti a scambiare l'appoggio politico con posizioni sulla legge di bilancio) affinché non lo lascino cadere.

La maggior parte dei manifestanti intervistati nei cortei ha ammesso di aver avuto dubbi sull’opportunità di partecipare a un corteo imponente, ma sono arrivati alla conclusione che la gravità del momento lo richiedeva.

Le elezioni presidenziali dell'ottobre 2022 si preannunciano sempre più come un duello tra il sentimento di antipatia, che è stato cruciale nel 2018, e l'antibolsonarismo, che sta aumentando. Nonostante i desideri del potere economico e mediatico, per ora non c'è all'orizzonte alcuna indicazione di una terza via che crei abbastanza entusiasmo per fare la differenza tra Bolsonaro e Lula.

Per leggere l'articolo originale: El pulso por la calle (también) se calienta en Brasil

 

La repressione nei confronti della rivolta dei giovani colombiani
Le Monde, 1 giugno 2021

Da un mese i giovani colombiani protestano nelle strade, nonostante la pandemia, la repressione e a volte la pioggia. “Non abbiamo né lavoro e né futuro. Non abbiamo niente da perdere se non la nostra vita”, ha spiegato Jeyson, 19 anni pieno di tatuaggi. Vive in una baracca nella periferia di Cali e fa parte della Primera Linea, il servizio d’ordine responsabile della sicurezza dei manifestanti e del presidio delle barricate sparse che bloccano i viali della città. “La polizia ci spara a vista, il presidente invia l’esercito. Se non ci fosse la stampa internazionale, ci ammazzerebbe. Come possiamo credere nel dialogo? Secondo le autorità municipali, venerdì, 28 maggio, sono state uccise tredici persone a Cali, otto di loro con armi da fuoco. La comunità internazionale è preoccupata per l’evoluzione della situazione colombiana e la brutalità della repressione.  L’alto commissario per i diritti umani dell’Onu, Michelle Bachelet, ha chiesto, domenica, l’apertura di un’inchiesta “rapida, efficace e imparziale” sulle violenze letali. È importante aprire un’inchiesta sui presunti responsabili delle ferite e dei morti, compresi i funzionari pubblici”, si legge nel comunicato Onu. Secondo i rapporti, venerdì sono state ferite 98 persone a Cali, di cui 54 da proiettili. Come ha fatto Bachelet, 17 ambasciatori dell’Unione europea in servizio a Bogotà hanno rivolto alle parti un appello al dialogo. In un tweet postato domenica i diplomatici hanno scritto: “Il paese chiede la riconciliazione e la fine della violenza”.

L’organizzazione per la difesa dei diritti umani, Human Rights Watch, sostiene di aver ricevuto “dei rapporti credibili” che riguardano la morte di 63 persone dall’inizio delle manifestazioni antigovernative in tutto il paese. La mobilitazione ha interessato tutte le città e tutti i giovani, dagli studenti delle migliori università agli adolescenti disperati dei quartieri più poveri, che, con la bandiera colombiana sulle spalle, chiedono la fine della violenza della polizia. Tutti loro sognano un paese più giusto. Alcuni sono infuriati e gli incidenti violenti sono quasi quotidiani.

 “Vandali” e “terroristi”

Il presidente della Colombia (di destra) mantiene la linea dura, nonostante gli appelli al dialogo delle organizzazioni per i diritti umani e della comunità internazionale. Il suo governo ha definito i manifestanti “vandali” e “terroristi”. Li ha accusati di essere guerriglieri e trafficanti di droga infiltrati, finanziati dal presidente russo Vladimir Putin e dal presidente venezuelano Nicolas Maduro, o manipolati da Gustavo Pedro, il dirigente della sinistra colombiana. In un’intervista pubblicata domenica dal mezzo di comunicazione online Vice, il ministro della Giustizia, Wilson Ruiz, ha parlato di “una cospirazione internazionale per screditare la Colombia”, e ha negato seccamente le decine di morti e sparizioni durante le manifestazioni. Le vittime, secondo il ministro, sarebbero state uccise in “incidenti isolati” e nelle “risse in strada”. Due giorni prima, Cali sembrava sprofondare nella guerra civile.

Sotto il luccichio dei cellulari, la polizia e alcuni uomini in borghese hanno sparato ai manifestanti tra grida, dietro le barricate e mentre i vetri si rompevano. Un uomo in borghese ha ucciso due manifestanti, era un funzionario del tribunale. È stato linciato a morte dalla folla. Ivan Duque si è diretto a Cali, venerdì sera, per annunciare “un dispiegamento massimo dei militari” per ripristinare l’ordine e smantellare le barricate. Il capo dello stato ha denunciato gli atti di vandalismo e di “terrorismo urbano” perpetrati dai manifestanti. Ma non ha condannato la presenza nella città di uomini in borghese armati. “Il governo continua ad aumentare la repressione contro l’agitazione sociale”, ha dichiarato Olga Araujo, assistente sociale. Cali, la terza città più grande del paese, è situata nel cuore di una regione agro-industriale ricca, tra Bogotà e il grande porto strategico di Buenaventura. Come nel resto del paese, l’opulenza dei ricchi si scontra con una miseria grande. Il decreto presidenziale firmato sabato autorizza l’esercito ad intervenire per “assistere” le autorità locali e la polizia locale in otto dipartimenti e tredici città. Il direttore di Human Rights Watch per le Americhe sottolinea che il decreto contiene un’omissione pericolosa non facendo alcun riferimento alla priorità al dialogo, ad evitare l’uso eccessivo della forza e al rispetto dei diritti umani.” Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, i sostenitori del dialogo e l’opposizione ritengono che la militarizzazione parziale del territorio sia pericolosa e incostituzionale. Il senatore di sinistra Ivan Cepeda denuncia “un mini colpo di stato”. La destra ha acclamato e ha chiesto al governo di prendere una posizione più ferma per ristabilire l’ordine e affrontare la “minaccia castro-comunista”. Migliaia di persone vestite di bianco sono scese domenica in strada per dimostrare il loro rifiuto ai rivoltosi, il loro sostegno alla polizia e la loro esasperazione per il blocco delle strade.

Segnali d’allarme

Il governo reputa “inaccettabili” i blocchi delle strade del Paese che complicano l’approvvigionamento alle città, compromettono il rilancio dell’economia del paese e colpiscono il diritto alla libera circolazione di coloro che non manifestano.

Tra le file dell’opposizione c’è chi ritiene che i blocchi stradali, come le violenze, siano eticamente discutibili e politicamente pericolosi. Il senso di caos che provocano e i danni che causano all’economia del paese potrebbero alla fine favorire la destra dura, anche in considerazione del fatto che il dialogo sembra più che mai a un punto morto. L’ennesima riunione di domenica tra i delegati del governo e del Comitato nazionale, che riunisce i sindacati e le organizzazioni sociali che sostengono il movimento, è finita con un altro insuccesso. I primi hanno chiesto lo smantellamento delle barricate per negoziare, mentre i secondi hanno chiesto la fine della militarizzazione.

Il Comitato nazionale rappresenta solo parzialmente i manifestanti, le cui rivendicazioni sono diverse, spesso molto radicate nella realtà locale, a volte molto ambiziose. Le dimensioni e la durata della mobilitazione la rendono una mobilitazione del tutto inedita in un paese che per lungo tempo ha vissuto una guerra contro le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC). Juan Carlos Guerrer, esperto di movimenti sociali, nel ricordare le ingiustizie strutturali della Colombia afferma: “Non è affatto una sorpresa. C’erano segnali d’allarme che i politici non hanno saputo cogliere”. “La violenza dei teppisti e la repressione è spaventosa. Molti giovani non sono scesi nelle strade per manifestare. Gli anziani non sono in strada per paura del Covid”, afferma il professore di storia, Jorge Mantilla. Secondo un sondaggio, il 90% dei giovani, oltre la metà dei meno giovani, continua a sostenere la mobilitazione.

Per leggere l'articolo originale: La répression face à la révolte des jeunes Colombiens


La preoccupazione dei lavoratori per l'accordo sulla sicurezza in scadenza
The New York Times, 29 maggio 2021

Il Bangladesh esporta ogni anno 34 miliardi di dollari di prodotti di abbigliamento. Dal disastro del Rana Plaza accaduto nel 2013, dove persero la vita più di 1.100 persone in seguito al crollo di una fabbrica a Dhaka, il Bangladesh è passato dall'essere il simbolo globale delle tragedie dei lavoratori tessili ad una storia di riforma di successo. L'accordo sulla sicurezza antincendio negli edifici, firmato nel 2013 dai rivenditori europei come Inditex, H&M e Primak, sindacati e proprietari delle fabbriche in Bangladesh, è stato una svolta storica, un accordo giuridicamente vincolante per il settore dell'abbigliamento a livello globale. Per la prima volta, quasi 200 marchi internazionali hanno accettato di realizzare ispezioni indipendenti nelle fabbriche che producono i loro prodotti di abbigliamento e di contribuire collegialmente a finanziare la formazione in materia di sicurezza e alcuni miglioramenti nella fabbrica. Le aziende che violano i termini dell'accordo possono essere multate o espulse dal gruppo.

Nello stesso anno è stato siglato un secondo accordo meno vincolante, l'Alleanza per la sicurezza del lavoratore in Bangladesh, firmato da aziende americane come la Walmart, Gap e Target. Ma con l'accordo che sta per scadere, le difficili conquiste realizzate in materia di sicurezza sul lavoro attivate con l'accordo, potrebbero non essere riconfermate. Marchi, sindacati e produttori locali si sono battuti nei negoziati per un accordo che lo sostituisse. Tutti vogliono avere voce in capitolo su come controllare i 34 miliardi di dollari di prodotti di abbigliamento esportati ogni anno dal Bangladesh. Il 21 maggio, dieci giorni prima della scadenza dell'accordo, i sindacati si sono ritirati pubblicamente. Nonostante l'accordo raggiunto all'ultimo minuto di venerdì con i sindacati e i marchi sull'estensione dei negoziati di tre mesi, insieme agli impegni dell'accordo attuale, il futuro del controllo sulla sicurezza nelle fabbriche dell'abbigliamento resta in sospeso in un momento critico per il Bangladesh e per il settore della moda a livello globale. È difficile che i rivenditori trovino una fabbrica che li rifornisca.

La maggior parte dei prodotti di abbigliamento e di calzature sono esternalizzati a fornitori nei mercati dei paesi emergenti come il Bangladesh, dove le spese generali sono basse e il costo del lavoro umano ancora più basso. Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, lavorano più di 4.5 milioni persone nei 4.500 impianti per l'esportazione di prodotti di abbigliamento in Bangladesh, il secondo esportatore più grande al mondo dopo la Cina. La conseguenza dell'accordo è stata che negli ultimi cinque anni sono stati risolti più di 120.000 rischi connessi ad incendi negli edifici causati dall'elettricità e quasi 200 fabbriche con due milioni di lavoratori hanno perso il contratto a causa degli standard di sicurezza scarsi in seguito alle oltre 38.000 ispezioni. “L’accordo è stato un apripista per il controllo della sicurezza del lavoratore a livello globale, che ha permesso di realizzare miglioramenti reali sul posto in Bangladesh”, ha affermato Michael Posner, professore di etica e finanza presso la Stern School of Business alla New York University.

“In risposta all'indignazione dell'opinione pubblica, l'accordo e l'alleanza hanno creato un precedente che ha obbligato le aziende rivali occidentali a lavorare insieme, a migliorare la trasparenza delle catene di fornitura e a dare maggiormente conto dell'azione in un sistema in cui hanno ricavato la maggior parte dei profitti”. Ma tanto l'accordo quanto l'alleanza, scioltasi nel 2018, sono state guidate da gruppi internazionali. Anche se l'accordo è stato prorogato per tre anni, l'intenzione nel lungo termine è quella di affidare la supervisione della formazione, dell'ispezione e del risanamento ad un unico organismo con sede in Bangladesh. Gli ultimi 12 mesi sono stati un periodo di transizione tra il neonato Consiglio per la sostenibilità dei capi di abbigliamento pronti da indossare, controllato dall'Associazione dei Produttori ed Esportatori dei capi di abbigliamento in Bangladesh, e l'accordo in scadenza.

Il consiglio per la nuova sostenibilità ha 18 posti divisi equamente tra le organizzazioni per la difesa dei diritti del lavoro, i rappresentanti dei marchi internazionali e i proprietari di fabbrica, che fanno parte del sistema politico del paese. Il vicepresidente dell'associazione, Miran Ali, ha dichiarato alla Reuters il mese scorso: “Siamo passati da un sistema in cui gli stranieri ordinavano ciò che i bengalesi dovevano fare a un sistema nazionale più collaborativo”.

Il nuovo Consiglio, a differenza del suo predecessore, non ha un'autorità legale. Dopo i ritardi dei negoziati provocati dalla pandemia, sono nate preoccupazioni dei dirigenti sindacali e delle organizzazioni non profit, come la Campagna Vestiti Puliti, sulla necessità che i criteri adottati dal consiglio siano abbastanza solidi da costringere i marchi e i proprietari delle fabbriche a portare avanti i cambiamenti costosi necessari per proteggere i lavoratori.

La settimana scorsa il segretario generale del sindacato mondiale dei servizi, UNI Global Union, ha detto che negli ultimi mesi i marchi hanno insistito su “un nuovo quadro per il futuro” che non includa gli elementi centrali dell'accordo, come la responsabilità singola del marchio e il controllo dei revisori terzi.

“Il Rana Plaza ha dimostrato che il controllo autonomo dei marchi non funziona”. “I marchi stanno utilizzando la pandemia come copertura nei confronti dei rivenditori e delle organizzazioni del lavoro per prolungare i negoziati, per cogliere questo momento e creare un accordo nuovo per dare un pezzo di potere più piccolo ai sindacati. Ma questo modello senza di noi non funziona.”

Secondo il direttore del settore tessile e dell'abbigliamento del sindacato mondiale IndustriALL, Christina Hajagos-Clausen, esiste un'agenda chiara che motiva alcuni dirigenti dei marchi europei a fare pressione per concludere un accordo nuovo: il desiderio di includere marchi americani come Walmart, che non fanno parte dei negoziati in corso e che sono più prudenti rispetto alla responsabilità legali da assumersi (l'alleanza non è mai stata legalmente vincolante). Attualmente, l'unica organizzazione americana interessata è PHV, proprietaria di Tommy Hilfiger e Calvin Klein, anche se i marchi e i rivenditori americani rappresentano un terzo delle esportazioni totali dei capi di abbigliamento dal Bangladesh. “Gli europei stanno cercando di convincere i rivenditori nord americani a contribuire di più al controllo collettivo della sicurezza sul lavoro diminuendo la responsabilità”, ha affermato Hajagos-Clausen. “Vogliamo che sempre più marchi firmino, dopo tutto le stesse fabbriche producono per i marchi americani e per quelli europei e internazionali. Ma quello che sta accadendo è una riduzione della credibilità dell'intero programma, che rende impossibile usare l’accordo come schema per una copertura globale in un momento pericoloso per i lavoratori dell'abbigliamento ovunque essi lavorino”.

Il presidente dell'Associazione dei produttori dei capi di abbigliamento, Faruque Hassan, non ha rilasciato alcun commento alle domande fattegli. Anche se alcuni marchi occidentali come Asos hanno detto che sosterranno pubblicamente un accordo legalmente vincolante, la maggior parte non ha ha voluto rilasciare commenti mentre i negoziati sono in corso.

Il rivenditore svedese H&M, che è stato cruciale nella creazione dell'accordo originale, è anche uno dei protagonisti dei colloqui in corso e, secondo il responsabile della produzione globale sostenibile di H&M, Payal Jain, ribadisce “l'impegno” assunto.

Jain ha detto che H&M "sostiene fortemente" una struttura a cui partecipano i sindacati, le organizzazioni dei datori di lavoro e il governo, come pure una chiara responsabilità dei marchi, e una maggiore sicurezza contro gli incendi negli edifici del paese. Jain ha aggiunto: “Siamo fiduciosi di poter arrivare a soluzioni positive". I lavoratori delle fabbriche in Bangladesh, che già affrontano tagli dei salari e ritardi nel pagamento dei salari, ci contano. Le esportazioni dei capi di abbigliamento, che rappresentano l'80% delle entrate annuali del Bangladesh, sono diminuite del 17% nel 2020. Il settore dell'abbigliamento del paese è stato distrutto mentre i marchi chiudevano i negozi durante la pandemia e cancellavano gli ordini per un valore di 3.5 miliardi di dollari, lasciando molti proprietari di fabbriche in rovina. L'industria ha visto una ripresa, ma il futuro è incerto, soprattutto con le continue chiusure e le epidemie di virus. I proprietari di fabbriche di piccole e medie dimensioni da tempo sostengono di essere strangolati dagli investimenti necessari per rispondere agli standard di sicurezza. Ora, le loro finanze si trovano ancora in difficoltà, poiché molti marchi globali continuano a spingere i prezzi degli ordini verso il basso in una situazione commerciale difficile. I marchi, inoltre, hanno chiesto alle fabbriche di intraprendere nuove e costose misure di sicurezza legate al Covid 19. Secondo Posner, mentre i miglioramenti sono stati realizzati espressamente per la sicurezza dei lavoratori in Bangladesh, il lavoro non è ancora finito. Anche se l'accordo e l'alleanza hanno riguardato 2.500 fabbriche, è ben noto che nel settore dell'abbigliamento ci sono più del doppio delle strutture, compresi i subappaltatori. Una parte significativa delle fabbriche in Bangladesh non è sicura. "Mentre il mondo ricomincia ad aprire e la domanda aumenta sempre di più, nessuno in questa equazione può permettersi di distogliere lo sguardo dalla palla", ha detto Posner. "È in gioco l'eredità dell'accordo".

Per leggere l'articolo originale: Concern for Workers as Accord on Safety Nears Its Expiration