Presidente del Sudafrica dal 1994 al 1999, premio Nobel per la pace nel 1993, Mandela - il cui nome completo è Nelson Rolihlahla (“attaccabrighe” in lingua xhosa) - è il primo presidente sudafricano non bianco a ricoprire tale carica.

Nato a Transkei, in Sudafrica, figlio di un capo tribù, nel 1944 si unisce al Congresso nazionale africano operando attivamente per abolire la politica dell’apartheid stabilita dal Partito nazionale al potere. Processato più volte per le sue azioni, dichiarerà in un’appassionata arringa durante il suo processo nel 1964 davanti alla Corte suprema di Pretoria: “Ho lottato contro il dominio bianco e contro il dominio nero. Ho coltivato l’ideale di una società democratica e libera nella quale tutti potessero vivere uniti in armonia e con pari opportunità. È un ideale per il quale spero di poter vivere e che spero di ottenere. Ma se necessario, è un ideale per il quale sono pronto a morire”. Condannato all’ergastolo tornerà libero, quasi settantaduenne, solo l’11 febbraio 1990. A 72 anni, dopo 27 di reclusione, era tra i più anziani prigionieri politici del mondo.

Quel giorno, in mezzo alla folla riunita davanti al carcere di Victor Verster, l’ultimo in cui fu rinchiuso, tra i corrispondenti in arrivo da tutto il mondo c’era anche Sahm Venter, giornalista di Johannesburg, poi ricercatrice alla Nelson Mandela Foundation e curatrice delle Lettere dal Carcere, la raccolta di missive scritte da Mandela nei suoi anni di prigionia (pubblicata in Italia da Il Saggiatore). In una di queste si legge: “Il compito principale che abbiamo è il rovesciamento della supremazia bianca in tutte le sue ramificazioni e l’istituzione di un governo democratico in cui tutti i sudafricani, indipendentemente da posizione sociale, colore o convinzioni politiche, vivranno fianco a fianco in perfetta armonia”.

Dopo il rilascio Mandela visiterà insieme ad alcuni giornalisti  la sua cella: “Eravamo un gruppo di quattro persone perché la cella era troppo piccola - racconterà sempre Sahm Venter - Eravamo in piedi con lui mentre ci spiegava come la porta venisse chiusa dal pomeriggio fino al mattino seguente. All’interno c’erano solo un secchio per la toilette e un tavolino di fortuna. Ci raccontò che quando si distendeva per dormire, la testa toccava un’estremità della stanza e i piedi l’altra. Gli chiesi cosa facesse, per tanto tempo, ogni giorno. Leggevo e scrivevo lettere, mi rispose. In seguito, lavorare alla raccolta delle sue lettere mi ha aiutato a capire fino a che punto la parola scritta rappresentasse, per lui, la libertà”.

Alla liberazione seguiranno le trattative per la transizione democratica del Paese, le elezioni, gli anni della presidenza e poi dell’impegno umanitario con la sua fondazione prima del definitivo ritiro dalla vita pubblica. Durante i 27 anni passati in carcere, la fama di Mandela, mai disposto a scendere a compromessi politici come contropartita per ottenere la libertà, cresce in modo costante facendo di lui un simbolo internazionale di resistenza.

Il 10 maggio 1994 diventa presidente del Sudafrica. “Lo abbiamo capito ora - dirà nel suo discorso di insediamento - che non vi è nessuna strada facile per la libertà. Lo sappiamo bene che nessuno di noi da solo può farcela e avere successo (...). Il tempo per la guarigione delle ferite è venuto. Il momento di colmare gli abissi che ci dividono è venuto. Il tempo di costruire è su di noi, è il nostro tempo, la nostra ora”.

Morirà, serenamente, a Johannesburg, il 5 dicembre 2013. “Quando un uomo ha fatto quello che ritiene il suo dovere per la sua gente e il suo paese - del resto era solito dire - può riposare in pace”.

Ai funerali - pochi giorni dopo - parteciperà probabilmente il più alto numero di personalità mai visto nella storia. “Madiba - scriveva Repubblica - soprannome che deriva dal suo clan di appartenenza, si è spento serenamente nella sua abitazione a Johannesburg, attorniato dai suoi familiari. Tutto il Sudafrica ha seguito con il fiato sospeso i suoi ultimi mesi, punteggiati da quattro ricoveri in ospedale dovuti a infezioni polmonari, conseguenze della turbercolosi contratta nei lunghi anni di prigione a Robben Island. Appena appresa la notizia una folla, fra cui tanti giovani si è radunata sotto la sua casa: molti in lacrime, qualcuno sorridendo nel ricordo di un uomo venerato ormai nel continente africano quasi come un santo”.

“Non posso immaginare la mia vita senza l’esempio di Nelson Mandela” - affermava nell’occasione Barack Obama turbato fino quasi alle lacrime - Io sono stato una delle milioni di persone ispirate da Mandela. Mi ha dato l’idea di cosa si può raggiungere quando si è guidati dalla speranza”. “Sono stato ispirato da Mandela”, raccontava l’allora segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon: “Mi disse che erano state centinaia di migliaia di persone ad aver abbattuto l'apartheid, non lui solo. Fui colpito da queste parole. Come è possibile, mi chiesi, che un uomo non si attribuisca i meriti che tutti gli attribuiscono? Dobbiamo imparare da Nelson Mandela per fare in modo che questo mondo sia migliore”. Lo stesso Dalai Lama dirà di “aver perduto un caro amico, un uomo coraggioso, di una integrità incontestabile. Il modo migliore per rendergli omaggio - affermerà -  è di lavorare per la pace e la riconciliazione come ha fatto lui”.

Nelson Mandela è una delle due persone di origini non indiane (l’altra è Madre Teresa) ad aver ottenuto il Bharat Ratna, il più alto riconoscimento civile indiano nel 1990. Ha inoltre ricevuto l’Order of St. John dalla Regina Elisabetta II e la Presidential Medal of Freedom da George W. Bush. Ruud Gullit, allora calciatore del Milan, gli dedicherà il pallone d’oro assegnatogli nel 1987. “Free Nelson Mandela” sarà l’urlo di ogni piazza e di ogni manifestazione durante gli anni della prigionia. Un mantra inarrestabile, una preghiera laica che diventerà l’11 giugno 1988 al Wembley Stadium di Londra un mega-concerto pop rock dalla durata di undici ore organizzato per chiedere la scarcerazione di Nelson Mandela nel giorno del suo settantesimo compleanno, trasmesso in diretta televisiva per un’audience globale di 600 milioni di persone.

“A differenza di Giulio Cesare, Mandela restò nelle sale del potere politico il tempo sufficiente per non vedere il suo nome marchiato dall’infamia della dittatura o da quel tipo di malattia amministrativa e incompetenza che ci troviamo davanti oggi. Come Cesare ha tuttavia vissuto abbastanza per vedere la sua stessa persona diventare un marchio. In Mandela c’è l’icona, l’uomo e, innegabile, il mito”, scriveva di lui il settimanale Mail & Guardian. “Mi preoccupava molto la falsa immagine di me stesso che avevo proiettato - scriveva lui stesso in uno dei suoi appunti - Nel mondo ero considerato una sorta di santo ma non lo sono mai stato, nemmeno se per santo si intende un peccatore che continua a provarci”. “Non giudicatemi - diceva - per i miei successi, ma per tutte le volte che sono caduto e sono riuscito a rialzarmi”.

Diceva a Pretoria il 10 maggio 1994, quando dopo 27 anni di prigionia, la sua elezione segnava la fine dell’apartheid:

Oggi, tutti noi, con la nostra presenza qui e con le celebrazioni in altre parti del nostro paese e del mondo, conferiamo gloria alla neonata speranza di libertà. Siamo appena usciti dall’esperienza di una catastrofe straordinaria dell’uomo sull’uomo durata troppo a lungo, oggi qui deve nascere una società a cui tutta l’umanità guarderà e questo ci renderà orgogliosi… Siamo mossi da un senso di gioia e di euforia quando l’erba diventa verde e il fiore fiorisce. Tale unità spirituale e fisica che tutti noi condividiamo con questa patria comune, spiega la profondità del dolore che tutti noi abbiamo sentito nei nostri cuori quando ci siamo visti strappare il nostro paese a causa di un conflitto terribile, che, come abbiamo visto, ci ha causato disprezzo, messo fuori legge e isolato dai popoli del mondo, proprio perché il Sud Africa era diventata la base universale della perniciosa ideologia e la pratica del razzismo e di oppressione razziale… Il tempo per la guarigione delle ferite è venuto. Il momento di colmare gli abissi che ci dividono è venuto. Il tempo di costruire è su di noi, è il nostro tempo, la nostra ora… Dedichiamo questa giornata a tutti gli eroi e le eroine di questo paese, per aver sacrificato la loro vita in molti modi perché potessimo tornare ad essere liberi, e al resto del mondo che ci ha accompagnato in questo cammino…. I loro sogni sono diventati realtà. La libertà è la loro ricompensa. L’abbiamo capito ora che non vi è nessuna strada facile per la libertà. Lo sappiamo bene che nessuno di noi da solo può farcela e avere successo. Dobbiamo quindi agire insieme come un popolo unito, per la riconciliazione nazionale, per la costruzione della nazione, per la nascita di un nuovo mondo.

Perché ci si salva e si va avanti solo tutti insieme, e mai come in questo ultimo anno ce ne siamo resi conto. Perché “fino a quando povertà, ingiustizia e palesi disuguaglianze esisteranno nel mondo, nessuno di noi potrà davvero riposare”.