Nelle Americhe il virus è arrivato dopo, rispetto a noi, ed è quindi nella sua prima fase del contagio, con una diffusione che appare fuori controllo, in particolare nelle aree rurali, amazzoniche e delle grandi periferie urbane. In alcuni paesi della regione i dati ufficiali del contagio e dei decessi non sembrano essere particolarmente affidabili e, le strategie di contenimento e di protezione della popolazione, appaiono deboli se non in alcuni casi nulle, con governi, come il caso del Brasile, che negano e sottovalutano rischi e pericoli di una vera e propria catastrofe sanitaria.

In generale, dal Messico alla Patagonia, circa due terzi della è priva del benché minimo sistema di protezione sociale e con sistemi sanitari insufficienti, assenti o privatizzati e quindi a pagamento, condizioni queste che rappresentano terreno fertile per la facile diffusione del contagio, morti, un rapido aumento delle povertà e dei conflitti sociali, con il rischio della tenuta democratica, dei diritti e delle libertà. A inizio ottobre l’Organizzazione Panamericana della Salute (Ops) ha calcolato in 9,4 milioni i contagi e in 340.000 i decessi. E la curva è ancora in salita.

Questi dati, come anticipato, debbono essere letti prendendo in considerazione il contesto della regione ed i fattori che ne determinano la condizione strutturale e la sua endemica fragilità per l'alto livello d’informalità del lavoro del 53,1%, secondo i dati dell’Ilo, che raggiunge l’82% tra indigeni ed afro-discendenti, che rappresentano la popolazione più vulnerabile della regione, per la bassa copertura di un sistema di protezione sociale con solo il 47,4% degli occupati che versa contributi sociali, per il lavoro povero con circa il 20% degli occupati che vive in condizioni di povertà, per la bassa produttività, per l’urbanizzazione precaria, per gli alti livelli di povertà e di disuguaglianza, per la grande disparità e discriminazione di genere, per la bassa fiscalità che fanno della regione un vero e proprio paradiso fiscale per le grande ricchezze e per le multinazionali.

Nell’ultimo rapporto della Commissione Economica per l’America Latina ed i Caraibi delle Nazioni Unite (Cepal), presentato lo scorso 15 ottobre, le proiezioni economiche a seguito della pandemia risultano essere a dir poco drammatiche. Il pil subirà a fine 2020 una riduzione superiore al 9%, riportando il valore del reddito pro-capite indietro di 10 anni, al 2010. Per la Cepal la crisi sarà la peggiore che si ricordi negli ultimi cento anni e uscirne sarà molto più lento di quanto si potesse immaginare: “...non sarà nel 2021, né nel 2022, né nel 2023...”. Una perdita superiore alla crisi della grande depressione del 1930, dove il pil diminuì del 5%.

Prosegue il rapporto della Cepal, prevedendo che la popolazione in condizioni di povertà tornerà ad essere quella del 2005, con circa 231 milioni di persone (37% del totale della popolazione della regione), e tra queste le persone in condizioni di povertà estrema saranno 96 milioni (15% della popolazione), tornando al livello del 1990. L’indice di Gini aumenterà tra l’1% e l’8%, con un ulteriore aumento delle disuguaglianze e saranno le economie più grandi (Argentina, Brasile e Messico, ndr) a subire le peggiori conseguenze. Per meglio interpretare questi dati e per capire la dimensione dell’emergenza che stringe la regione latinoamericana, è utile prendere a riferimento la crisi degli anni '80 quando per tornare al reddito pro-capite ed ai livelli di povertà pre-crisi, furono necessari rispettivamente 15 e 25 anni per ridurre la povertà ai valori antecedenti la crisi.

Più che giustificato, quindi, il grido d’allarme lanciato dalla Cepal che, presentando il suo rapporto di ottobre, si è rivolta agli stati della regione, avvertendoli del rischio concreto di una crisi economica e sociale di tali dimensioni che se non contrastata con determinazione e misure profonde, può trasformarsi in una crisi alimentare ed umanitaria. Terminando con una sollecitazione, altrettanto chiara e sempre rivolgendosi ai governanti, di lasciar da parte le politiche di aggiustamento per mettere in campo una politica di aumento dei salari, di investimento nel digitale a favore delle aree a rischio di ulteriore esclusione sociale ed economica, di lotta all’evasione fiscale e di una politica fiscale più severa nei confronti dei patrimoni, delle corporation del digitale e dell’agro-industria, delle proprietà terriere, e di chi sfrutta l’ambiente.

Stesso tenore di preoccupazione arriva dalle associazioni umanitarie che denunciano la drammatica situazione dei popoli indigeni della conca amazzonica, presi tra la perdita di territorio a causa delle politiche di deforestazione e degli incendi che rendono impossibile la loro vita, la presenza di contrabbandieri e bande armate dedite ad ogni tipo sfruttamento ed estrazione illegale delle incredibili ricchezze del territorio (legname, fauna, pietre preziose), il narcotraffico ed ora il virus letale. Popolazioni isolate, senza più i riferimenti e le risorse territoriali che per secoli hanno permesso di difendersi dalla colonizzazione, di poter riprodurre la loro cultura ed i sistemi di protezione e cura contro le malattie, oggi si trovano prive delle conoscenze e dell’assistenza necessarie per difendere i propri diritti e la propria salute, come è accaduto nel corso dei secoli quando le armi e le malattie portate dal vecchio continente decimarono intere popolazioni.

La Coordinadora Indigena de la Cuenca Amazonica (Coica) stima che dall’inizio della pandemia alla prima settimana di ottobre, gli indigeni contagiati dal virus sono stati circa 70.000 e circa 2.000 morti, distribuiti tra i sei stati di Colombia, Brasile, Perú, Ecuador, Venezuela, Guyana e Bolivia. Il numero di contagi e di decessi maggiore si sono registrati nel territorio brasiliano, rispettivamente 25.350 e 670. Sul versante sindacale la Confederazione dei Sindacati delle Americhe (Csa) a inizio ottobre ha presentato i risultati di una indagine realizzata tra maggio e giugno, che ha visto la partecipazione di 43 organizzazioni sindacali di 21 paesi della regione, da cui si conferma che le misure prese dai governi latinoamericani contro la pandemia, hanno avuto un effetto negativo immediato sui diritti del lavoro e sull’occupazione.

Le più frequenti violazioni subite dai lavoratori a seguito delle misure restrittive decise dai governi sono state per 31 su 43 organizzazioni sindacali (72%) l’aumento dei licenziamenti ingiustificati, per 27 su 43 (62,8%) la riduzione dei salari, per 26 su 43 (60,8%) l’aumento delle violenze ed abusi sessuali, per 19 su 43 (44%) la perdita del salario, per 17 su 43 (39,5%) l’imposizione di straordinari, per il 14 su 43 (32,5%) il rifiuto di riconoscere le indennità di fine lavoro.  

In generale le misure prese dai governi per proteggere l’occupazione sono state molto diverse ma in generale insufficienti; nel 33,6% dei casi vi è stata la sospensione dal lavoro per un periodo di tre mesi, con contributi alle imprese nel 16,3% dei casi. Vi sono stati paesi che non hanno preso alcuna misura di protezione (16 %). Solamente in una percentuale minore di casi 9,3% vi è stata l’emanazione di una legge che ha vietato la sospensione dei licenziamenti. Mentre, per il lavoro autonomo, nel 53,4% dei casi si è avuto un sussidio economico per la durata di 90 giorni, e nel resto dei casi non vi è stato nessun sussidio.

L’emergenza sanitaria ha anche messo in evidenza la mancanza di dialogo tra istituzioni e parti sociali nella definizione delle misure prese per contrastare la pandemia: 18 confederazioni su 43 (41,9%) non sono state consultate dai propri governi. La contrattazione collettiva è stata sospesa unilateralmente nel 50% dei contratti in vigore. Tutto ciò ha determinato un forte indebolimento delle stesse organizzazioni sindacali che si sono trovate a dover affrontare una repentina riduzione delle entrate dalle quote con al conseguente necessità di riduzione degli organici e della capacità di azione.

Ancor più preoccupante è l’aumento delle violenze di genere, di femminicidio e di discriminazione nei confronti della popolazione indigena ed afro-discendente, denunciato dalle Nazioni Unite e dalle associazioni umanitarie che attraversa tutta la regione, aggravando una situazione che già prima della pandemia era una emergenza sociale e politica. In Argentina le denunce da parte di donne lavoratrici sono aumentate del 39%, in Brasile il femminicidio è aumentato del 22%, in Perù da gennaio ad agosto vi sono stati 78 femminicidi, 143 tentativi, 39 morti violente di donne e 50.000 richieste di assistenza ai centri di soccorso per violenze domestiche. In Messico tra marzo ed aprile vi sono stati 405 casi di femminicidio.

Chiaro che questo scenario ha una ricaduta sulla tenuta democratica dei paesi della regione, che già potremo valutare dalle prossime scadenze elettorali in Bolivia, in Venezuela, in Ecuador, dall’esito del referendum sulla riforma della costituzione in Cile, dalla gestione degli accordi di pace in Colombia, se l’Argentina riuscirà ad uscire, e come, dalla crisi del peso del debito, da come il Perù uscirà dalla sua crisi istituzionale, e per ultimo, il gigante Brasile, il paese colpito da una tempesta perfetta, se saprà riprendere la strada di paese guida della regione per rilanciare il processo di integrazione regionale e di riforme strutturali per ridurre le disuguaglianze e consolidare la democrazia e la giustizia sociale dal Rio Grande alla Patagonia.

Sergio Bassoli, area Politiche internazionali Cgil