Lo scontro elettorale Trump-Biden si presenta per molti versi come un bivio storico, ma non faremo qui nessun tentativo di prevederne l’esito. Pur registrando il fatto che a metà ottobre Biden è dato per favorito da tutti i sondaggi, non si può fare altro che sottolineare l’esistenza – comunque – di ampi margini di incertezza legati alla partecipazione al voto, all’importanza che avrà l’eventuale scarto a favore di Biden (se sarà lui il vincitore) e all’atteggiamento del presidente uscente nell’eventualità della propria sconfitta. Sono tutti fattori di preoccupazione; il più grande riguarda la possibilità che Donald Trump sia rieletto.

Su queste contingenze bisognerà tornare a cose fatte. Quello di cui parliamo qui riguarda una contraddizione di fondo: tanto nei settori “arretrati” del commercio e della sanità, quanto in quelli più “avanzati” della terza rivoluzione industriale, il capitale non vuole intralci dai sindacati. È stato raggiunto un punto critico nella linea evolutiva del sistema, in buona parte indipendente da chi risiede alla Casa Bianca. Nel corso del Novecento la conquista della rappresentanza nei luoghi di lavoro aveva contribuito a democratizzare la società; poi, la distruzione delle rappresentanze e degli stessi luoghi di lavoro ha portato negli anni Duemila alla crisi della democrazia. Crisi che non è solo degli Stati Uniti, ma di cui Trump è stato interprete esemplare.

Dall’ultimo dei rapporti annuali della banca svizzera Ubs sui miliardari del mondo, appena pubblicato, risulta che mentre la pandemia da coronavirus faceva sfracelli ovunque, le disuguaglianze sociali e la ricchezza dei super-ricchi continuavano a crescere. In particolare, sono stati i profitti nei settori dello hi-tech e della sanità – meglio: dell’industria della salute – ad avere le crescite più spettacolari tra l’inizio di aprile e la fine di luglio del 2020: più 41,1% e più 36,3% rispettivamente. Cifre diverse, naturalmente, ma stesso quadro per quanto riguarda gli Stati Uniti. Con in più una coincidenza: entrambi questi settori sono caratterizzati da politiche aziendali contrarie all’organizzazione sindacale dei dipendenti. Ma i super-ricchi, scrive la Ubs a compensazione, sono grandi filantropi. È così da sempre: soldi alle istituzioni caritatevoli e investimenti in campi di riconosciuto valore sociale – dall’arte allo sport e alla ricerca scientifica – ma non riconoscimento del diritto alla rappresentanza organizzata dei propri lavoratori.

Su questi settori focalizzerò l’attenzione in queste righe, estratte in parte da analisi più ampie pubblicate dalle riviste Inchiesta e Officina Primo Maggio. Per decenni la General Motors è stata la più grande società privata degli Stati Uniti. Non lo è più. Il grande capitale si è espresso sempre meno nella grande fabbrica manifatturiera. Oggi la GM è al ventitreesimo posto nella lista dei maggiori datori di lavoro. Nei decenni del declino è crollata anche la presenza sindacale al suo interno. Per questo ha fatto notizia il ritorno a un grande sciopero contrattuale nell’autunno 2019, quando la United Auto Workers, dopo quindici anni di impotenza, è riuscita a fermare per 40 giorni quasi 50.000 operai di 50 stabilimenti. 

Al primo posto dei grandi datori di lavoro è Walmart, al secondo è McDonald’s. Colossi dell’autoritarismo padronale, entrambi sono stati investiti negli ultimi anni dalle lotte per aumenti salariali e per la sindacalizzazione. Walmart ha accettato di portare a 12 dollari le paghe orarie in 500 suoi punti vendita negli Stati Uniti, ma resiste a ogni tentativo di sindacalizzazione dei suoi dipendenti. McDonald’s, che ha sempre assunto i dipendenti come lavoratori autonomi, quindi non sindacalizzabili, e spesso con qualifiche (ma non mansioni, né salari) da impiegati, è stata al centro di lunghe lotte per il diritto alla rappresentanza sindacale, per assunzioni diverse e per paghe orarie di 15 dollari.

A cercare di rimanere padroni assoluti in casa propria sono anche i grandi dello hi-tech. Apple, Microsoft, Amazon, Facebook e Alphabet (Google) – che nel loro insieme “valgono” 7,3 trilioni di dollari e che hanno avuto enormi profitti nei mesi della pandemia – sono tutti non-union. E dettano la linea: i sindacati sono assenti anche dalla quasi totalità delle aziende minori del settore. L’antisindacalismo è la loro politica aziendale, senza dubbio facilitata dalle strutture occupazionali dei dipendenti (professionali ad alti stipendi, oppure addetti a servizi secondari e poveri, essendo le fasi manifatturiere della produzione esternalizzate) e dalle tipologie di rapporti di lavoro (ad esempio: nel 2019, Google aveva più lavoratori temporanei e a contratto che dipendenti propri, spesso al lavoro fianco a fianco nelle stesse mansioni ma con trattamenti diversi). Gli attivisti filo-sindacali sono quasi sempre emarginati o licenziati. Tuttavia, la politica antisindacale può convivere con “aperture” di vario tipo offerte ai dipendenti, sia individualmente che collettivamente; forme di benevolenza e tolleranza che sono le varianti odierne del paternalismo.

La conseguenza forse più interessante è che i dipendenti hanno dato vita a forme di attivismo interno su temi “sociali” in sintonia con istanze e movimenti cresciuti nella società circostante: contro il sessismo aziendale nel 2018 a Google; contro il mutamento climatico e contro l’utilizzo di combustibili fossili nel 2018 e ’19 ancora a Google, ma con coinvolgimenti ad Amazon e Microsoft; contro l’impiego di fake news a fini politici a Facebook.

In sostanza, dalla rivoluzione che ha trasformato capitale e lavoro, le aziende dello hi-tech hanno tratto i maggiori benefici; hanno delocalizzato le loro lavorazioni manifatturiere, così come tutte le altre manifatture “fordiste”; si sono dotati di una élite di tecnici più o meno altamente qualificati, e comunque ad alti stipendi, e hanno messo ai lavori “servili” una manodopera precaria e a bassi salari. Entrambe le componenti, per ragioni opposte, sono state finora poco sensibili al richiamo dell’organizzazione sindacale. D’altro canto, l’accresciuta sensibilità a problemi di altra natura – etica, ecologica, sociale – le ha messe entrambe in rapporto con forze politico-culturali diverse che si sono mobilitate negli anni del trumpismo. E questi avvicinamenti, a loro volta, hanno sollecitato le trasposizioni all’interno della domanda di futuro, giustizia ed equità sociale condivisa all’esterno.

Le donne e gli uomini che non hanno ancora trovato le vie della mobilitazione nelle aziende hi-tech sono soprattutto afroamericani e ispanici. Sono gli stessi che invece hanno dato vita alle lotte per salari, stabilità occupazionale e rappresentanza nei mestieri del commercio al dettaglio e dell’assistenza infermieristica ospedaliera, dove sono assoluta maggioranza. La popolarità e la durata, i vasti appoggi e i successi che hanno avuto negli scorsi anni hanno infine “fatto entrare” il mondo del lavoro nella sollevazione sociale seguita agli omicidi polizieschi di questi mesi. Infatti, nonostante la pandemia, la composita sollevazione è stata accompagnata da numerose iniziative di protesta, non tutte di grande rilievo, ma spesso importanti localmente (come gli scioperi nei porti del Pacifico) o per il coinvolgimento sindacale (degli infermieri, dei servizi, degli elettrici…) o ancora per l’attivizzazione di gruppi d’iniziativa diversi dai nomi significativi: Amazonians United, Whole Food Worker, Fight for 15$, Target Workers Unite e Gig Workers Collective.