Il giorno è arrivato: oggi (21 giugno) le lavoratrici e i lavoratori del gruppo Tim scioperano di nuovo, per la seconda volta, dopo settimane di mobilitazione senza che né l’azienda né il governo abbiamo dato nemmeno segni di attenzione alle richieste di dipendenti e organizzazioni sindacali. Nel frattempo, si attende di capire il futuro delle telecomunicazioni e della digitalizzazione del Paese, visto che una parte delle gare del Pnrr sono andate deserte perché, nonostante gli enormi contributi pubblici, ritenute poco remunerative, e aumentano le preoccupazioni sul destino dei dipendenti.  

Nelle comunicazioni inviate ad azienda, Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e ministero del Lavoro, le ragioni della protesta sono assai chiare: “Incertezze societarie, piano industriale di alienazione del gruppo Tim. E ancora, difesa dei perimetri occupazionali, rilancio strategico e industriale del più grande e importante gruppo di telecomunicazioni del Paese e contro un piano di taglio dei costi del lavoro irricevibile, presentato il 16 maggio scorso”.

 

Eppure, proprio nelle scorse settimane la strada verso la rete unica nazionale sembrava imboccata, ma in attesa della presentazione del piano industriale da parte dell’amministratore delegato Pietro Labriola, sembra confermata anche la scelta del management aziendale di spezzatino. Secondo Riccardo Saccone, segretario nazionale della Slc Cgil, “è stata fatta una scelta che va contro gli interessi del Paese. La digitalizzazione deve essere la realizzazione di un diritto universale, non può che essere fatta da un'azienda capace di portare in tutto il territorio questa nuova infrastruttura. Il modello del soggetto che vende connettività non funziona. Lo ha dimostrato già Open fiber e non è un caso che questo modello non esista in nessun altro paese europeo, esclusa la Grecia”.

Questa è una delle ragioni alla base dello sciopero di oggi. Da quel che si può capire, l’idea di Labriola è di dividere in tre Tim: una società per costruire la rete e altre due di contenuti. Il che vuol dire che “l’intelligenza” sarebbe fuori dalla società che “tira i cavi e distribuisce il rame”. Questo, secondo Saccone, significherebbe “condannare il Paese a perpetuare le diseguaglianze tra i territori dove conviene investire nella rete e gli altri. Un’azienda di mera costruzione delle infrastrutture deve stare sul mercato e quindi, nonostante gli incentivi pubblici, non garantisce il servizio universale. Non solo, privata dell’intelligenza, il rischio di depauperamento è elevato”.

Se questa operazione andasse in porto il rischio di avere - più di quanto non lo sia già - un’Italia a due velocità sarebbe reale. Una connessa, digitale e performante, quella delle grandi aree urbane, e l’altra a scartamento ridotto, quella delle zone interne. Ma non va dimenticato che connessione e digitale significano sviluppo economico anche per le piccole e medie aziende che popolano proprio le aree interne e che in assenza della rete ultraveloce sarebbero tagliate fuori dai grandi circuiti commerciali ed economici. E non se la passerebbero meglio i cittadini e le cittadine a cui, ad esempio, sarebbe impossibile accedere alla telemedicina.

Se le ragioni dello sciopero che riguardano il Paese sono chiare, il segretario della Slc Cgil ribadisce anche le preoccupazioni per il futuro dell’occupazione. “Nel progetto dello spezzatino vediamo anche un altro pericolo. La società di rete che sta nascendo e nella quale verranno spostate un numero considerevole di maestranze, esaurito il lavoro di cablaggio fra tre o quattro anni, diventerà semplicemente una società di manutenzione; quindi, non avrà bisogno di tutta la forza lavoro che nel frattempo vi sarà stata trasferita. Cosa succederà? E quanti e quali dipendenti andranno nelle altre due società? Con quali garanzie sul presente e sul futuro? Tutto questo è sconosciuto anche perché le relazioni industriali con Tim sono interrotte e sembra proprio che la dirigenza del Gruppo non sia affatto interessata al confronto con noi”.

Ma in questa vicenda che è grave e paradossale, vi è un altro aspetto che non solo è a sua volta paradossale ma che rasenta l’incredibile. Parlando di Tim, parliamo di un settore, quello delle telecomunicazioni, strategico non solo per la realizzazione del Pnrr, ma anche – e forse soprattutto – per la proiezione del Paese nel futuro: eppure sembra proprio che tutto ciò al Governo non interessi.

“Questa è la cosa che ci colpisce di più e ci indigna – afferma Saccone –. Dalla piazza e in tantissimi chiediamo al Governo chi ha deciso questo modello di sviluppo, dove lo ha deciso e con chi e quali impegni ha preso. Perché è semplicemente scandaloso che il Parlamento, le forze di rappresentanza politica e quelle sociali siano state completamente estromesse dal dibattito sul modello di sviluppo di un settore fondamentale. I processi di digitalizzazione hanno già cambiato, e continueranno a farlo, il modello di pubblica amministrazione, il modello di lavoro, di scuola e di socialità; per non parlare di tutti i contenuti. La nuova televisione e i nuovi modelli produttivi dei contenuti passano tutti per le reti telecomunicazioni. Così come passa di là la telemedicina, quindi il diritto alla salute. E allora noi pretendiamo di sapere”.

Sapere chi e dove ha deciso che l’ex monopolista debba essere ridotto a pezzetti invece che rafforzarsi come sta accadendo con i campioni nazionali delle telecomunicazioni in tutti gli altri Paesi europei, a cominciare da Francia e Germania. “Solo da noi si sta lavorando a un piano industriale distruttore, che supera l’integrità verticale dell’azienda con la complicità di Cassa Depositi e Prestiti e del Governo”.

E parlando di futuro ci si domanda se chi ha ideato il piano si renda conto che così procedendo si taglia fuori l’Italia dal tavolo dove si ragiona di come confrontarsi con la Cina e gli Usa. Non sarà un caso che proprio Francia e Germania, attraverso i propri “campioni nazionali”, questo problema se lo stiano cominciando a porre. “Il punto è proprio questo – aggiunge il dirigente sindacale – nei maggiori paesi europei e non solo, nei settori strategici esistono grandi aziende con una quota di capitale pubblico che ne stabilizza la governance e concorre a determinarne l’indirizzo. Da noi si va nella direzione opposta, basta osservare cosa è successo nel settore del trasporto aereo: è stato praticamente smantellato e ora si sta facendo altrettanto con quello delle telecomunicazioni, proprio quando Francia e Germania iniziano a fare un ragionamento di consolidamento europeo".

Per Saccone "la sfida con la Cina e l'America non la si può combattere in un singolo paese: occorre fare un ragionamento continentale. Bene, a quel tavolo non si potrà accedere con una società che vende semplicemente connettività all'ingrosso, quindi l’Italia sarà tagliata fuori”.

“Ecco – conclude Saccone – noi oggi protesteremo contro tutto questo, contro il fatto che è stato deciso di smantellare la presenza italiana in settori strategici senza un dibattito pubblico”.