Nella prima iniziativa organizzata dalla Camera del lavoro di Bari sul 65esimo della scomparsa di Giuseppe Di Vittorio, sono state lette alcune sue dichiarazioni. Una, in particolare, mi ha colpito per la sua semplicità e attualità. Parlava della necessità di combattere il “carovita” che tanti danni e problemi scarica sui lavoratori. Questo argomento oggi è di straordinaria attualità e non è sempre semplice spiegare il perché, dopo tanti anni, dell’aumento dell’inflazione alle persone. Tutto viene collegato alla guerra, che ovviamente incide moltissimo, ma non è solo questo.

L’effetto concreto è invece facilmente visibile. Da molti anni non ci confrontavamo con un aumento così alto e repentino dei prezzi al consumo che adesso vengono motivati con molti termini tecnici: “inflazione temporanea o duratura, percepita o effettiva, importata o meno”. Dietro questi tecnicismi si nasconde un pratico concetto antico, quello che Di Vittorio chiamava “carovita”.

Aumentano i prezzi, questo ognuno lo vede, mentre non si incrementa allo stesso livello il potere d’acquisto dei salari. Crescono così le difficoltà ad arrivare a fine mese, cresce la povertà in generale e anche fra chi lavora, cresce la sfiducia nel futuro. Alcuni di questi aspetti vengono in parte, ma solo in parte, schermati con provvedimenti transitori o con una tantum da parte del governo. Le scelte fiscali invece, anche quando strutturali, quasi mai riguardano la parte più povera della popolazione.

Le iniziative per frenare l’inflazione possono risultare meno efficaci rispetto a fattori esterni se non assunte in ambito europeo. Non devono - come altre volte - riguardare politiche monetarie che producono l’effetto di rallentare l’economia, ma devono essere invece molto più incisive sulla regolazione dei prezzi dei beni socialmente significativi, sia in modo diretto verso i prodotti sia indiretto tramite Iva.

Le imprese sostengono di non poter corrispondere aumenti salariali adeguati al crescere del costo della vita perché in difficoltà. I dati sulle trimestrali e sulla produzione non dicono univocamente questo e sono comunque diversi tra settori, ma, contemporaneamente, le stesse imprese stanno attivando un aumento esponenziale della precarietà e prevedono un uso massiccio della cassa integrazione. In sostanza, molto si scarica come sempre sulla parte più povera della popolazione.

Torniamo quindi all’interrogativo iniziale: come l’inflazione colpisce concretamente il tenore di vita delle persone? Anzitutto sempre in modo inversamente proporzionale alla propria condizione economica. Mettendo a confronto i dati Istat relativi al mese di marzo 2022, sia per il commercio al dettaglio sia per i prezzi al consumo, si possono trarre alcune indicazioni. Su base annua l’inflazione è superiore al 6 per cento, e viene giustificata principalmente con l’aumento dei prezzi dei beni energetici per colpa della guerra. Vero, ma l’inflazione ha iniziato ad aumentare lo scorso anno e sta attualmente crescendo anche negli altri comparti merceologici, portando già “l’inflazione di fondo” attorno al 3 per cento.

In particolare, per tipologia di prodotto, l’aumento è forte per i generi ad alta frequenza di acquisto (fra cui alimentari e prodotti per la cura della casa e della persona), sia per l’aumento diretto dei prezzi sia per un effetto ottico: prezzo identico, stessa confezione, ma meno prodotto, con una crescita del “carrello della spesa” al 6 per cento. Questo riguarda in particolare, come detto, almeno quei due terzi di persone che spendono la grande parte delle proprie risorse disponibili in questi prodotti.

Rispetto a un anno fa le vendite al dettaglio aumentano in valore, ma prevalentemente per l’aumento dei prezzi, molto meno per il volume di beni acquistati. Fino alla cartina di tornasole relativa ai beni alimentari, che registrano una diminuzione sia in valore (-0,5 per cento) sia soprattutto in volume di beni acquistati (-6 per cento).  Cosa significa è chiaro: si spende di più e si acquista di meno.

Ma attenzione: di fronte alle incognite del prossimo periodo, che possono portare a un ulteriore rallentamento delle esportazioni, un contemporaneo e consistente calo dei consumi aggraverebbe esponenzialmente il rischio paese. Il calo dei consumi, come le crisi precedenti hanno evidenziato, produce effetti non solo nella quantità di acquisti, ma anche relativamente alla loro qualità, via via più bassa come tipologia di prodotto. Nel Paese che ha nel cibo una delle caratteristiche fondamentali del Made in Italy, questo ovviamente incide di più.

Si prevede un livello inflattivo attorno al 6 per cento per tutto il 2022 e una (molto ottimistica) diminuzione nel 2023, ma comunque sempre attorno al 3 per cento. È evidente, dunque, che imprese e governo devono assumersi precise responsabilità nel trovare soluzioni a problemi che già esistevano da tempo e che si sono ulteriormente aggravati con la guerra: un loro protrarsi ancora a lungo porterebbe inevitabilmente a forti elementi di protesta sociale.

Sempre Di Vittorio, ancora oggi, nella straordinaria attualità delle sue indicazioni, spiegava come non possano convivere la stagnazione dei salari con il notevole aumento del costo della vita. E affermava che fin quando non si riuscirà a impedire con i fatti l’aumento dei prezzi sui lavoratori, non rimane altra risorsa che esigere adeguati aumenti dei salari.

Fulvio Fammoni è presidente della Fondazione Di Vittorio