Niente tornerà come prima. Tra gli esperti questa affermazione è ormai considerata una verità. Proprio nel momento in cui le varie economie mondiali cercano di reagire agli effetti della pandemia, è evidente che ora il problema non è solo quello di tornare ai “livelli pre-crisi”, ma quello di fare i conti con le debolezze strutturali del sistema produttivo e di affrontare con strumenti nuovi la grande trasformazione che ci viene chiesta per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità ambientale. Se ne parla nel Rapporto dell’Osservatorio Futura della Cgil che ha analizzato gli ultimi dati Istat sull’andamento socioeconomico (pubblichiamo in allegato il Rapporto completo). Noi abbiamo cercato di approfondire i temi del cambiamento industriale con Walter Schiavella, coordinatore area politiche industriali e reti della Cgil

Schiavella, secondo i dati Istat analizzati dall’Osservatorio l’impatto della crisi non è stato uniforme tra i settori produttivi, e ha determinato effetti differenziati anche tra le unità di uno stesso comparto. La crisi ha aumentato le diseguaglianze?

Sicuramente sono aumentate le distanze tra Nord e Sud, tra comparti produttivi e all’interno dei singoli comparti industriali e del terziario. Come abbiamo letto dal Rapporto dell’Osservatorio, le imprese solide (ovvero in grado di reagire a una crisi esogena) sono solo l’11%, ma valgono il 46,3% dell’occupazione e il 68,8% del valore aggiunto. All’opposto, le unità a rischio Strutturale (imprese che subiscono conseguenze tali da metterne a repentaglio l’operatività)sono il 44,8% del totale, ma hanno un peso economico più limitato (20,6% degli addetti e 6,9% del valore aggiunto). La crisi ha colpito soprattutto le imprese più piccole: tra le micro (3-9 addetti), circa la metà appare a rischio Strutturale (51,7%) mentre un quarto rientra tra le fragili. E’ evidente quindi che non si potrà affidare al mercato la soluzione dei problemi, soprattutto in un momento in cui alla crisi si aggiungono le sfide della trasformazione digitale e della sostenibilità ambientale.

Lo Stato deve quindi assumere un ruolo centrale nell’economia della trasformazione?

Noi pensiamo che lo Stato debba assumere un ruolo maggiore nella definizione del futuro modello produttivo e di sviluppo utilizzando una molteplicità di strumenti, dall’intervento diretto nei settori strategici, ai poteri di indirizzo, incentivazione e regolazione dei mercati. Lo Stato deve intervenire nella definizione degli obiettivi strategici e nella definizione degli indirizzi di politica industriale. Senza un ruolo definito della mano pubblica le diseguaglianze e gli squilibri non potranno che peggiorare, come stiamo vedendo nel caso della stangata delle bollette. La transizione verso un'economia sostenibile in termini di produzioni industriali ed energetiche deve essere tanto veloce quanto giusta in termini sociali; il prezzo della necessaria ed indilazionabile trasformazione dei sistemi produttivi e della decarbonizzazione non può e non deve essere scaricato sui cittadini e sui lavoratori. Per questo serve un ruolo forte dello Stato nel governo di questi complessi processi. In questo senso è anche necessario ribadire quello che la Cgil chiede da mesi: il coinvolgimento delle parti sociali nella definizione del quadro di realizzazione del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Come si dovranno utilizzare le risorse del Pnrr e come si potrà realizzare il cambiamento dell’economia sostenibile?

Serve uno Stato che indirizzi e servono player nazionali capaci di affrontare le sfide del mercato mondiale e della trasformazione. In sostanza si devono rilanciare quelle politiche industriali che sono da anni assenti dalla scena. Non basteranno le ingenti risorse messe a disposizione dal Pnrr. Sarà necessario selezionare e superare la logica dell’incentivo automatico, concentrandosi su alcuni settori strategici. Occorre, come ha ribadito più volte il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, puntare sulla creazione di occupazione di qualità e definire precisamente il ruolo del nostro sistema produttivo nazionale. Per superare la logica dell’incentivazione automatica è necessario mettere in campo processi che incentivino l’aggregazione delle imprese e delle reti, mentre la presenza diretta dello Stato dovrà essere rafforzata già a livello di ricerca di base  in collaborazione con le imprese. Ma non si potranno escludere interventi diretti dello Stato anche nel capitale delle imprese laddove si renda necessario come ad esempio nei settori dell’automotive, dell’energia, delle telecomunicazioni e della siderurgia dove mercati sempre più aperti e concorrenziali avranno bisogno di forti  incumbent nazionali. Vanno inoltre sostenuti i processi di integrazione di imprese e filiere per rendere più forte il sistema economico nazionale che si deve confrontare sempre di più con la concorrenza internazionale.  Queste scelte saranno fondamentali per far sì che gli effetti della transizione producano ricadute produttive ed occupazionali nel nostro paese. Un esempio chiaro riguarda la trasformazione del parco autobus. Chi produrrà gli autobus elettrici o le auto elettriche? Chi produrrà i prodotti necessari alla costruzione della nuova  generazione elettrica da fonti rinnovabili? L’Italia si rassegnerà ad acquistare quei prodotti all’estero o sarà in grado di produrli sul territorio nazionale? Non basta quindi dire che ci sono tanti soldi a disposizione dalle risorse europee. Dobbiamo discutere al più presto come spenderli e chi produrrà quei beni e quale e quanta occupazione saranno in grado di generare..

IL RAPPORTO COMPLETO DELL'OSSERVATORIO FUTURA