Professore, in una intervista su La Stampa il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha fatto riferimento, tra le altre cose anche ai fondi pensione chiusi di categoria, alla previdenza complementare e al welfare aziendale. Quali sono le intenzioni degli industriali in proposito?

Il ragionamento di Bonomi è chiaro, per nulla condivisibile, ma chiaro. Dal suo punto di vista i contratti possono essere sbloccati solo se si accetta il principio per cui il contratto nazionale non attribuisce incrementi salariali, e questi ultimi possono essere riconosciuti solo con la contrattazione di secondo livello, aziendale, e solo a condizione che ci siano aumenti di produttività. Ciò che Confindustria è disponibile a concedere alla generalità dei lavoratori è un po’ di previdenza complementare e un po’ di welfare aziendale, dal momento che, come noto, il Testo Unico delle Imposte sui Redditi concede rilevanti vantaggi fiscali alle imprese per queste tipologie di spesa.

Perché non è condivisibile questa posizione?
Quella di Bonomi è una posizione miope, contraria all’interesse dei lavoratori, del Paese e anche degli stessi imprenditori. Non mi riferisco certo alla previdenza complementare o al welfare aziendale, dal momento che anche i lavoratori possono trarre vantaggio se alcune risorse vengono loro attribuite attraverso questi canali. Mi riferisco all’idea secondo cui gli incrementi salariali dovrebbero essere attribuiti solo dove si registra una crescita della produttività. Infatti, al di là degli aspetti di carattere etico e di equilibrio sociale, è ben noto che la produttività del lavoratore dipende dalla competitività dell’impresa in cui lavora, e dunque in primo luogo da elementi quali la qualità della tecnologia utilizzata, la dimensione dell’impresa, la spesa per formazione. Inoltre, quella produttività dipende anche dal contesto territoriale. Legare il salario alle dinamiche della produttività significa in sostanza scaricare sui lavoratori le eventuali carenze di investimenti privati e pubblici. Significa fare del salario la variabile dipendente di tutto il sistema.

Torniamo alla previdenza complementare. Che giudizio si può dare dell’esperienza realizzata finora?
C’è stata una crescita della previdenza complementare ma ben inferiore alle aspettative, con molti problemi e occasioni che non possiamo più permetterci il lusso di mancare.

A quali problemi fa riferimento?
Mi riferisco principalmente al tasso insufficiente delle adesioni ai fondi chiusi negoziali, alla scarsa informazione a disposizione dei lavoratori in materia di previdenza complementare, alla dimensione inadeguata dei fondi pensione, e anche al fatto che proprio coloro che avrebbero maggiore bisogno di una pensione integrativa non possono permettersela.

Andiamo con ordine, ci spieghi come stanno le cose.
Per quanto attiene al primo aspetto, ai fondi chiusi di categoria non aderiscono più del 30 per cento dei potenziali lavoratori interessati, poco più di tre milioni di lavoratori. E  le adesioni sono particolarmente ridotte soprattutto nelle piccole imprese, dove il sindacato entra meno e le informazioni non circolano. Eppure i dati dimostrano che generalmente l’adesione conviene al lavoratore, anche grazie al meccanismo della contribuzione datoriale che incrementa il capitale versato a nome di ciascun lavoratore. E questo pure a dispetto di una rilevante variabilità dei risultati che dipende dalle oscillazioni dei mercati finanziari nei quali il risparmio pensionistico dei fondi a capitalizzazione è investito, e dunque anche dal momento di ingresso e uscita del lavoratore dal fondo pensione.

C'è quindi un problema di consapevolezza e di circolazione delle informazioni?
Infatti, i lavoratori dovrebbero essere messi nelle condizioni di seguire con attenzione le loro posizioni individuali. L’evidenza più macroscopica di una inadeguatezza del sistema informativo italiano e di una insufficiente trasparenza del mercato riguarda le dinamiche interne al settore che ha visto negli anni una forte crescita dei fondi aperti e soprattutto delle polizze assicurative individuali con finalità previdenziale, i famosi Pip. Ebbene, la crescita dei Pip è avvenuta a dispetto del fatto che i costi di gestione sono molto più alti rispetto ai fondi aperti e soprattutto rispetto ai fondi negoziali. Su un orizzonte temporale di dieci anni, l’indicatore sintetico dei costi per i Pip è del 2,20 per cento, contro lo 0,40 per cento dei fondi negoziali. E questo incide pesantemente sulle prestazioni nette. Se poi pensiamo che i fondi individuali non usufruiscono della contribuzione aggiuntiva dei datori di lavoro, ecco che le dinamiche cui facevo riferimento si spiegano solo con la scarsa trasparenza del settore e la ridotta consapevolezza previdenziale.

Lei accennava anche a un problema di dimensione dei fondi pensione...
Sì, come mostra l’ultimo Rapporto Covip, a fine 2019 vi erano in Italia ben 380 forme pensionistiche, Certo questo numero si è dimezzato rispetto a venti anni fa, ma è ancora troppo elevato. Sarebbe necessario favorire ancora le concentrazioni, per avere soggetti più grandi, che possano abbattere i costi e offrire servizi migliori agli aderenti in termini di rendimenti e certezza dei controlli. La direttiva europea Iorp II impone ai fondi un forte rafforzamento strutturale e passi avanti nei sistemi di governance, spingendo opportunamente nella direzione della crescita dimensionale. Oggi solo i fondi pensione più grandi sono adeguatamente attrezzati per rispondere alle esigenze posto dalla Iorp II. Ma il problema più rilevante è certamente l’ultimo cui accennavo.

Ci spieghi.
Mi riferisco al fatto che l’età degli aderenti ai fondi pensione è elevata, e gli aderenti under 35 sono appena il 20 per cento del totale. A ben vedere, i titolari di fondi pensione sono frequentemente lavoratori maturi cui certo fa molto comodo una pensione integrativa ma che spesso non ne avrebbero strettamente bisogno. Mentre proprio i più giovani, quelli delle generazioni del lavoro precario, che non hanno una continuità contributiva e che si candidano, per così dire, ad avere bassissime pensioni dal sistema pubblico, non hanno accesso alla previdenza privata. Si tratta di un problema drammatico, cui certamente non possono fare fronte i gestori delle forme pensionistiche complementari ma a cui dovrebbe pensare la politica. È possibile immaginare che una intera generazione passi dal precariato alla pensione di cittadinanza? Non vi è dubbio che occorrerebbe trovare il modo di prevedere una forma di contribuzione pubblica per i periodi di disoccupazione.

Professore, lei fa riferimento a occasioni che non possiamo permetterci il lusso di mancare. Si riferisce alla sua proposta sugli investimenti dei fondi?
Il patrimonio gestito dai fondi pensione viene investito in larga parte nei mercati finanziari esteri. A fine 2019 la raccolta del sistema della previdenza complementare ha superato i 185 miliardi di euro, oltre il 10 per cento del pil del Paese. Questo patrimonio viene investito per il 20 per cento in titoli del debito pubblico italiano mentre solo il 3 per cento arriva alle nostre imprese. Tutto il resto va all’estero per inseguirei rendimenti più elevati, naturalmente nell’interesse degli aderenti. Dopo la crisi del Coronavirus non possiamo più assistere inerti a questo deflusso di risorse. La proposta è quella di creare, magari con l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti, uno strumento di investimento diretto che raccolga quote di risparmio dei fondi pensione per investirli nell’economia italiana, ad esempio a favore di imprese italiane che puntino alla crescita occupazionale o per le infrastrutture sociali. Per incentivare i Cda dei Fondi a partecipare al progetto, e soprattutto per tutelare gli interessi degli aderenti ai fondi, è indispensabile che ci sia una garanzia di rendimento minimo, che potrebbe essere la rivalutazione del Tfr. In questo modo, metteremmo il risparmio pensionistico al servizio dello sviluppo e dell’occupazione proteggendo l’interesse dei lavoratori.