La richiesta di Fca di un prestito di sei miliardi e mezzo garantito dallo Stato ha fatto riemergere la ciclica discussione sulle imprese che fanno profitti da noi e pagano le tasse lì dove si risparmia. Giusta discussione, che occorre fare a prescindere dalle richieste di prestito di una o dell’altra impresa. Poi, è evidente, esiste un problema di condizioni forse insufficienti, che i beneficiari dei contributi pubblici dovrebbero garantire a cominciare dai livelli occupazionali e dall’impegno a produrre nel nostro territorio. Proprio l’insufficienza di condizionalità è stata evidenziata da Gianna Fracassi, vicesegretario generale della Cgil, durante l’audizione in Commissione Bilancio di Montecitorio sul “decreto rilancio”.

Un passo nella giusta direzione è stato compiuto in questi giorni alla Camera dei deputati. L’aula ha appena approvato il testo del “decreto liquidità”, accogliendo un emendamento, presentato da due deputati del Partito democratico e proposto dalla Cgil, sul vincolo a non delocalizzare per le imprese che riceveranno la garanzia dello Stato per l’emissione di prestiti bancari. La norma dovrà ora passare al vaglio del Senato per l’approvazione definitiva, ma è certamente una buona notizia.

Non risolve, però, la questione dei diversi regimi fiscali in vigore in Europa. La concorrenza fiscale è la vera questione da affrontare. Sarebbe auspicabile un’armonizzazione almeno tra i paesi dell’Unione per quanto riguarda tasse e tributi, per le imprese e per i cittadini, ma questo al momento sembra davvero un sogno irrealizzabile. Ma proposte sul tappeto di Bruxelles per migliorare la situazione ce ne sono. Cerchiamo di capire, anzitutto, qual è lo stato dell’arte.

Uno studio Ocse/Istat attesta che nel nostro Paese vi sono circa 63 mila sedi di multinazionali, di cui 25 mila sono riconducibili a 11.720 imprese con base all’estero, e circa 38 mila fanno capo alle 8.125 italiane, con affiliate in 125 Paesi del mondo. Questo studio, inoltre, valuta in più di 32 miliardi di euro ogni anno i profitti che queste imprese allocano in maniera non trasparente in sistemi fiscali esteri. Perché accade?

Da anni alcuni paesi dell’Unione, come Olanda, Irlanda e Lussemburgo (ma non solo loro), hanno deliberatamente scelto la via della corsa al ribasso delle imposte per le imprese. Riducendo aliquote e limando gli imponibili, incrementando le stime dei costi, esentando alcuni ricavi o fornendo pareri fiscali preventivi assai discutibili, come ad esempio il ruling irlandese ad Apple. Il tutto finalizzato ad attrarre gli investimenti continentali.

Grazie a queste sciagurate decisioni, alcune imprese sono formalmente “migrate” verso quei Paesi, sfruttando la libertà di circolazione garantita dall’Unione, senza una reale motivazione organizzativa, ma con l’unico scopo di pagare meno imposte o, in alcuni casi, non pagarle affatto. In questo modo quei Paesi hanno guadagnato (in numero di imprese, di occupati, in capitale, in ricerca e sviluppo) rispetto agli altri, ma al prezzo di indebolire tutto il sistema produttivo e fiscale dell’intera Unione Europea, accrescendone le difficoltà nell’orientare le strategie di politica industriale e sottraendo entrate fiscali. Proprio quelle entrate fiscali che in questa pandemia stanno pagando la sanità pubblica e gli interventi di rilancio.

Anche in Italia, in passato, si era cercato di individuare gli strumenti per attrarre capitali stranieri. Con la legge di bilancio 2017 si è introdotta nel nostro ordinamento la norma che prevede una sorta di flat tax di 100 mila euro, qualunque sia l’imponibile fiscale, per i grandi ricchi stranieri che vogliono spostare in Italia la propria residenza “investendo” in titoli di stato italiani o in società per azioni; stessa agevolazione è prevista per i loro familiari, che pagheranno all’erario meno ancora (per loro l’imposta è fissata a 25 mila euro).

L’idea dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi era di giovarsi delle preoccupazioni di quanti tra russi, asiatici e mediorientali di grandi disponibilità, temevano di essere estromessi dalla City londinese a causa dells Brexit. Quanti hanno giovato di quella norma, quanti ne sono arrivati in Italia? Ovviamente è difficile saperlo. Sta di fatto che quella flat tax è tuttora in vigore. Anzi, uno degli oltre 200 articoli del “decreto rilancio” appena varato dal governo ritocca la norma del 2017 per renderla più conveniente.

Per evitare la concorrenza “sleale” tra Paesi, lo dicevamo, servirebbe più Europa e una reale armonizzazione dei regimi fiscali. In attesa che questo si realizzi, il Consiglio europeo (su proposta della Commissione) ha allo studio un’ipotesi di direttiva interessante, che se approvata sarebbe utile a ridurre l’elusione fiscale attraverso lo spostamento di sede: la Common consolidated corporate tax base (Ccctb, in italiano Base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società). La misura prevede che ogni azienda debba far confluire in un unico bilancio le diverse voci, costi e ricavi, registrati nei diversi Paesi, in modo da individuare il reale profitto continentale. In questo modo nessuna impresa potrebbe spostare i ricavi in una nazione anziché in un’altra al solo fine di un vantaggio fiscale.

“Evasione ed elusione sono una delle principali cause dei problemi di finanza pubblica del nostro Paese”, commenta Cristian Perniciano, responsabile Fisco e finanza pubblica della Cgil nazionale: “Si calcola che ogni anno non entrino nelle casse dell’erario oltre 100 miliardi di euro, il doppio di quanto stanziato per il decreto rilancio. Secondo alcune stime, l’elusione fiscale a causa dello spostamento di Paese costa allo Stato italiano tra i sette e i dieci miliardi l’anno”. La Cgil, conclude l’esponente sindacale, ritiene indispensabile “che si acceleri l’approvazione della proposta allo studio del Consiglio europeo. Ovviamente serve anche un importante impulso al recupero dell’evasione che si consuma in Italia che, com’è evidente dai numeri, costituisce la gran parte del mancato gettito”.