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Alla faccia della destra sociale. Gli esponenti “di spicco” del governo Meloni, a partire dalla premier, hanno fatto carriera fin da giovanissimi richiamandosi ossessivamente a questa “cultura” politica, ma a conti fatti, come vuole la tradizione della destra, sono arrivati al potere e lo stanno gestendo con orientamenti del tutto diversi. Cartina di tornasole, una delle tante, è la chiusura con cui la maggioranza da tempo ‘rimbalza’ il tema del salario minimo.
Come funziona in Europa?
In Europa una direttiva dell’Unione, la 2022/2041, emanata dal Parlamento europeo e dal Consiglio del 19 ottobre 2022, è finalizzata a “garantire l’adeguatezza dei salari minimi e condizioni di vita e di lavoro dignitose per i lavoratori europei, nel rispetto delle specificità di ogni ordinamento interno e favorendo al contempo il dialogo tra le parti sociali. Ciò al fine di contribuire alla convergenza sociale verso l’alto e alla riduzione delle disuguaglianze retributive”.
Peccato che, come accade spesso alle buone intenzioni espresse dagli organi dell’Unione, all’articolo 1 è specificato che “nessuna disposizione della direttiva può essere interpretata in modo tale da imporre a qualsiasi Stato membro” l’obbligo di introdurlo. Il risultato è che 22 dei 27 Stati membri dell’UE hanno un salario minimo nazionale, mentre Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia e – indovinate un po’? – Italia non lo prevedono.
E in Italia? No, grazie
Siamo così alla storia – piuttosto recente – del salario minimo nel nostro Paese. Che resta orfano di un provvedimento che a livello nazionale fissi una cifra di dignità sotto la quale non si possa scendere, sotto la quale non è più lavoro, è sfruttamento. Per la retribuzione limite a conti fatti sono state spese parole e persino alcune riunioni formali e confronti tra governo e parti sociali, ma non uno delle centinaia di consigli dei ministri che in questi anni hanno imposto decreti millantanti necessità e urgenza su mille questioni, ha trovato l’accordo sul salario minimo.
Una proposta dal basso
È nata così, dal basso, dalle forze sociali e dai comuni, da quell’alleanza forte tra sindaci, governatori, Cgil, associazionismo, un’onda che, in alcune grandi città e in alcune regioni, ha permesso al salario minimo di essere inserito all’interno di ordinanze comunali a protezione, per cominciare, di quelle lavoratrici e quei lavoratori degli appalti pubblici – pulizie, mense, servizi sociali e tanti altri settori nevralgici della polis – che sono sempre i più fragili e i più soggetti alla gogna del massimo ribasso, alle lunghe interruzioni tra un periodo di impiego e l’altro, che rischiano, come molti altri e più di molti altri, di non arrivare neanche alla terza settimana del mese.
È solo un piede nella porta, ma è un grande passo per la storia dei diritti, in questo scorcio di ventunesimo secolo che assume sempre più le inquietanti sembianze di altri tempi nei quali sfruttare i lavoratori era una pratica diffusa e socialmente giustificata.
Una battaglia Comune
Firenze, Napoli e Genova sono oggi i Comuni più grandi ad averlo scritto nero su bianco in ordinanze di indirizzo. La cifra è quella di cui da anni si discute, 9 euro lordi all’ora. Ma c’è da dire che in realtà, nell’ultimo anno, sono tante le città, quasi sempre amministrate dal centrosinistra, che hanno votato linee di indirizzo per l’applicazione del salario minimo nei propri appalti. Per rendere efficaci queste delibere si va da meccanismi di premialità a veri e propri criteri da rispettare perché un’impresa possa partecipare alle gare d’appalto.
Un’opposizione politica che parte dal basso. Un filo rosso che scarabocchia l’Italia impegnando le giunte, la Cgil, le associazioni e la società civile allo scopo di migliorare concretamente la vita dei lavoratori coinvolti, ma anche di fare opposizione, su un tema molto concreto, al governo Meloni che – alla faccia della destra sociale – continua a ignorare, a livello nazionale, la proposta di legge presentata dai partiti di opposizione.
La mappa delle ordinanze e delle mozioni
In principio, il 9 marzo del 2024, fu l’allora sindaco Pd di Firenze, Dario Nardella, ad annunciare l’approvazione in giunta di “una delibera molto importante, che definirei storica, che stabilisce il principio del salario minimo orario di 9 euro”.
Pochi mesi dopo, il 30 ottobre 2024, fu il consiglio comunale di Livorno ad approvare una mozione che è entrata in vigore il primo maggio – data simbolica – del 2025 e ha introdotto un salario minimo di 9 euro all’ora per i dipendenti del Comune e per i lavoratori impiegati nelle aziende che vincono gli appalti comunali.
La misura si è diffusa rapidamente in molti altri comuni del territorio e la stessa Regione, rossa per antonomasia, ha introdotto un salario minimo di 9 euro l’ora per i contratti di appalto relativi a lavori, servizi e forniture della Regione. Approvata dal Consiglio Regionale della Toscana a settembre scorso, ha l’obiettivo di garantire una maggiore equità salariale e migliorare le condizioni di lavoro per i dipendenti coinvolti negli appalti pubblici.
Ancora prima era stata la Regione Puglia, con legge regionale 30 maggio 2024, n. 19, ad approvare “Disposizioni per la qualità e la sicurezza del lavoro, per il contrasto al dumping contrattuale, nonché per la stabilità occupazionale nei contratti pubblici d’appalto o di concessione eseguiti sul territorio regionale”.
A Napoli il vincolo a una retribuzione non inferiore a 9 euro l’ora in contratti stipulati da Comune e partecipate ha compiuto un anno il 25 luglio.
Anche il Consiglio regionale del Lazio ha approvato all’unanimità la mozione n. 155 dell’11 aprile 2024 concernente: “Tutela della retribuzione minima salariale nei contratti di appalto di lavori, servizi e forniture e nelle concessioni della Regione Lazio”, che richiama la direttiva comunitaria dell’Unione 2022/2041.
Mentre a Roma è del 10 ottobre 2024 la delibera che mira a migliorare le condizioni dei lavoratori, rispettando i salari minimi dei contratti collettivi nazionali.