Recita l’art. 1 della legge 9 febbraio 1963 n. 66: “La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge”. È il punto di arrivo di percorso lungo e tortuoso, a tratti decisamente grottesco.

La discussione relativa all’accesso delle donne in Magistratura è già particolarmente accesa già in fase Costituente.

“La donna - affermava l’onorevole Molè nella seduta del 20 settembre 1946 - deve rimanere la regina della casa, più si allontana dalla famiglia più questa si sgretola. Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche”.

“La donna - sosteneva Eutimio Ranelletti qualche anno dopo - (…) è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica, dominata dal pietismo, che non è la pietà; è quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti”.

 Il magnanimo Giovanni Leone affermerà di non essere completamente contrario all’ingresso delle donne in magistratura ritenendo che esse avrebbero fatto un ottimo lavoro nei tribunali dei minori, grazie alla loro femminilità e sensibilità. “Negli alti gradi della magistratura - però - dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell'equilibrio di preparazione che più corrisponde, per tradizione a queste funzioni”.

La scelta delle costituenti di mettere ai voti un doppio emendamento riuscirà a garantire il risultato che le donne volevano raggiungere: bocciato l’emendamento Rossi-Mattei (120 voti su 153) che dichiarava esplicitamente il diritto femminile di accesso a tutti i gradi della magistratura passerà quello Federici, che sopprimeva la parte limitante dell’articolo in discussione.

 “Noi non possiamo ammettere - affermava Teresa Mattei - che alle donne rimangano chiuse porte che sono invece aperte agli uomini. Sia tolto ogni senso di limitazione e sia anzi affermato, in forma esplicita e piena, il diritto alle donne ad accedere ad ogni grado della magistratura come di ogni altra carriera”.

 A chi le chiedeva “Signorina, lei vuole ammettere le donne alla magistratura! Ma sa che in certi giorni del mese le donne non ragionano?”, Chicchi rispondeva: “No, ma so che molti uomini come lei non ragionano tutti i giorni del mese”.

Ci vorranno quindici anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione e ben 16 concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse, per avere, nel 1963, l’affermazione del principio di uguaglianza fra i sessi nell’accesso in magistratura.

Il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne verrà bandito il 3 maggio 1963 e sarà vinto da otto donne, che entreranno in servizio il 5 aprile di due anni dopo: Letizia De Martino, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli, Graziana Calcagno Pini, Raffaella D’Antonio, Annunziata Izzo, Giulia De Marco, Emilia Capelli.

“Eravamo una stranezza - raccontava qualche anno fa Maria Gabriella Luccioli, una delle 8 vincitrici - il nostro entrare in un mondo da sempre maschile2 ci faceva sentire sempre sotto esame. Le donne hanno cambiato il diritto: la diversa sensibilità, il linguaggio, il modo di gestire i rapporti umani, di interpretare la norma e darne concretezza hanno vivificato la giurisdizione. Nel farsi diritto vivente le donne hanno contribuito a profonde innovazioni nel campo del diritto di famiglia, della tutela dei soggetti deboli, del concetto di tollerabilità della convivenza matrimoniale, della attribuzione del cognome dei figli, della ridefinizione del concetto di violenza”.