L’Ufficio Nuovi Diritti venne creato, all’interno della Cgil, nei primi anni 90 del Novecento durante la segreteria di Bruno Trentin. L’Ufficio, che nel tempo ha preso a seguire tutte le tematiche legate ai diritti della persona, all’autodeterminazione e alla laicità dello Stato, nacque proprio sulla scorta di un caso di discriminazione di un lavoratore in ragione del suo orientamento sessuale e della sua partecipazione a una delle prime manifestazioni che rivendicavano pari diritti per le persone gay, lesbiche e trans. Ancora oggi questa tematica ha un valore centrale nel nostro ragionamento sulla laicità e sulla autodeterminazione.

E non è un caso che l’atto di nascita dell’Ufficio abbia coinciso con la segreteria Trentin. Come si ricordava nei giorni scorsi anche su questo giornale, il perno della riflessione di Trentin e della sua esperienza di segreteria stava proprio nell’idea del sindacato dei diritti: un sindacato, cioè, che partisse dalla persona che lavora per farsi promotore di diritti universali, ponendosi come protagonista della società civile organizzata.

Nonostante, quindi, questa impostazione si sia affermata ormai trent’anni fa, il nostro sindacato e il suo Ufficio Nuovi Diritti continuano ad essere oggetto d’attacchi con l’argomentazione del “cosa c’entra il sindacato con i diritti civili e della persona?”. Se è vero che spesso questi attacchi sono strumentali perché provengono da quei settori che ferocemente avversano il progresso e il riconoscimento dei diritti della persona e quindi mal sopportano che un soggetto forte come il primo sindacato italiano faccia sentire il suo peso nella rivendicazione di quei diritti, accade comunque che quel tipo di perplessità vengano avanzate anche da aree limitrofe alla nostra quando non anche dall’interno stesso della nostra organizzazione.

Argomentare una risposta, in questi casi, è sempre un po’ spiazzante, non certo per una oggettiva difficoltà a farlo ma perché la questione è di tale evidenza che quasi rende difficile spiegarla. E allora, oltre alle motivazioni “storiche” su ricordate, è sempre bene partire da alcune considerazioni. Va innanzitutto detto, a costo di apparire banali, che le persone che tentiamo di rappresentare al meglio non sono entità differenti quando svolgono la loro attività lavorativa rispetto a quando vivono la loro vita di relazione. Le persone non son fatte a compartimenti stagni, non smettono di essere tali quando timbrano il cartellino per tornare ad esserlo dopo le cinque e inevitabilmente la loro sfera personale travalica l’ambito lavorativo e viceversa.

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Una seconda ragione, di altrettanta evidenza, sta nella confederalità del sindacato che porta in sé il fatto che si faccia portatore non solo di un modello di regolazione del mondo del lavoro ma di un modello di società nel suo complesso: una conseguenza, se si vuole, dell’elaborazione trentennale della quale si diceva prima.

Un’ulteriore considerazione riguarda la funzione antidiscriminatoria come missione quasi genetica del sindacato. Ma il contesto di appartenenza, con tutta evidenza, non è neutro rispetto a quella funzione. Banalizzando potremmo affermare che svolgere un’azione antidiscriminatoria per orientamento sessuale e identità di genere nei posti di lavoro non ha la stessa possibilità di successo in Francia, per indicare un paese con una legislazione avanzata su questi temi, o in Polonia.

Questa lunga premessa serve a spiegare la nostra presa di posizione riguardo alla proposta di legge Zan sul contrasto all’omolesbobitransfobia, all’abilismo e al sessismo. Una proposta già licenziata dalla Camera e ormai da mesi in attesa di calendarizzazione al Senato per effetto di pratiche apertamente ostruzionistiche poste in essere dal presidente della Commissione Giustizia del Senato, leghista e perciò ferocemente contrario alla legge ed evidentemente poco consapevole del ruolo istituzionale che gli è stato affidato.

Continuiamo e continueremo a sollecitare la calendarizzazione della proposta auspicando una sua approvazione senza modifica alcuna: oltre alla posizione che da sempre sosteniamo - anche al tavolo lgbt costituito presso l’Unar e la Presidenza del Consiglio e del quale siamo parte – secondo la quale la legge in discussione rappresenta già il risultato di un compromesso la cui asticella non può essere ulteriormente portata verso il basso, c’è anche da dire che le richieste di modifica che in questi giorni vengono avanzate hanno l’evidente obiettivo di affossare la legge: qualunque minima modifica, infatti, comporterebbe il ritorno nell’altro ramo del Parlamento con un allungamento dei tempi incompatibile con l’approvazione prima della fine della legislatura, tanto più in un clima politico profondamente modificato dall’avvento della nuova maggioranza di governo.

La proposta va quindi approvata senza se e senza ma e – soprattutto – senza modifiche: chi sostiene che il tema del contrasto alla violenza sia un tema divisivo è in evidente malafede. Non di temi di parte si tratta ma di norme di civiltà già presenti negli ordinamenti di tutti i paesi fondatori dell’Unione e sui quali l’Unione stessa ha ripetutamente richiamato il nostro Paese affinché si doti di questo strumento.

Sandro Gallittu è responsabile dell'Ufficio Nuovi diritti della Cgil nazionale