La lotta paga. Anche quella condotta dal patronato Inca Cgil nelle aule di giustizia di mezza Italia. Lo schema si ripete, sempre uguale. La parte lesa è un cittadino straniero al quale viene negata una prestazione sociale. Il risultato è lo stesso. Lo smascheramento della palese discriminazione. Anche in questo modo, attraverso la perseveranza della tutela individuale, il sindacato lotta per l’integrazione e per il miglioramento delle condizioni dei migranti nel nostro Paese. L’ultimo capitolo di una saga che va avanti da tempo è stato scritto dalla sezione lavoro del Tribunale di Urbino. Anche stavolta ad essere chiamato in causa è l’Inps e la sua ostinazione nel negare l’accesso alle prestazioni di welfare ai cittadini extracomunitari che in Italia vivono, lavorano e pagano le tasse, solo perché sprovvisti di un permesso da lungo soggiornanti. Sollecitato dal ricorso promosso dall’Inca del territorio, il giudice, dando ragione al patronato, ha consolidato un orientamento giurisprudenziale di segno totalmente opposto.

In questo caso al centro della contesa il diritto a percepire il bonus bebè da parte una cittadina di nazionalità albanese, titolare di un permesso che le consente di lavorare in Italia, ma priva del permesso Ue per soggiornanti di lungo periodo. Il giudice ha dichiarato il carattere discriminatorio della condotta dell’Inps, che, escludendola dalla prestazione, ha messo la lavoratrice straniera in una posizione di ingiustificato svantaggio rispetto al cittadino italiano, e ha ordinato all’Istituto di cessare la condotta discriminatoria e di pagare alla ricorrente il bonus bebè.

“Il paradosso – commenta Roberto Rossini, segretario generale della Cgil di Pesaro Urbino – è che, malgrado ci siano direttive comunitarie sulle quali già si sono pronunciati, nello stesso modo, altri tribunali in Italia, l’Inps continui imperterrita ad applicare una sua interpretazione, senza capo né coda, e ci costringa, ogni volta, ad andare davanti a un giudice che, regolarmente, ci dà ragione. La cosa la trovo estremamente grave perché questo tipo di interpretazione proviene da un ente pubblico, l’Inps appunto, che si espone a una condanna per discriminazione, per giunta di fronte a una normativa chiara. È una cosa che mi lascia allibito. Per non parlare dello spreco di tempo e denaro dei contribuenti. Eppure è l’ennesima volta che, per difendere la maternità e la paternità, dobbiamo andare in un tribunale. Perché a una madre, semplicemente per il fatto di non essere una cittadina comunitaria, viene negato un diritto, malgrado ci sia una direttiva e la persona in questione abbia un impiego e paghi le tasse nel nostro Paese”.