È il congresso della Seconda Internazionale riunitosi nel luglio del 1889 a Parigi a lanciare l’idea di una grande manifestazione che “sarà organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente in tutti i Paesi e in tutte le città, nello stesso giorno, i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare ad effetto le altre risoluzioni del Congresso di Parigi”.

La scelta della data cade sul Primo Maggio: giorno in cui, tre anni prima a Chicago, una grande manifestazione operaia per le otto ore aveva dato luogo a una sanguinosa repressione. La festa, ratificata ufficialmente a Bruxelles nell’agosto 1891 (II Congresso dell’Internazionale), è osservata e praticata già nel 1890 con manifestazioni a livello nazionale e locale. Ma, almeno in Italia, avrà vita breve. Il fascismo abolisce infatti nel 1923 (R.D.L. 19 aprile 1923, n. 833 in G.U. 20 aprile 1923, n. 93, p. 3190) la ricorrenza, preferendo un’autarchica “Festa del lavoro italiano” il 21 aprile in coincidenza con il Natale di Roma.

Con queste parole, Mussolini giustificava la sua decisione: “La grande guerra, che ha valorizzato ogni manifestazione di attività, ha sviluppato anche in tutte le classi una più profonda coscienza delle energie e del lavoro individuale. Celebrare, in un giorno all’anno, queste energie e questo lavoro è sprone ad una più fervida, proficua attività collettiva e nazionale; ed è bene che ciò sia formalmente riconosciuto in una legge dello Stato. E perché la celebrazione si ricongiunga ai ricordi della nostra storia e del genio della stirpe, il governo ha voluto farla coincidere con la data del 21 aprile: la fondazione di Roma, data immortale da cui ha inizio il lungo, faticoso, glorioso cammino dell’Italia”.

La questura di Roma riferisce dell’arresto di 15 uomini che inneggiavano al Primo Maggio cantando inni sovversivi. La Giustizia del 2 maggio (il giornale sarà sequestrato) parla di ‘Primo maggio represso’, mentre a Catania arrivano all’ufficio postale numerose copie di un volantino firmato anni prima da Mussolini in cui si esaltava il Primo maggio. Ma nonostante le censure e gli arresti, la Festa del lavoro mantiene negli anni - e anzi rafforza - la sua carica.

“Al di là delle adesioni formali, delle parate e delle cerimonie ufficiali - scrive lo storico Giuseppe Sircana - il regime non riesce a fare breccia nella coscienza delle masse operaie. Il Primo Maggio, soppresso, mantiene e anzi rafforza la sua carica 'sovversiva', divenendo occasione per esprimere in forme diverse - dal garofano rosso all’occhiello alle scritte sui muri, dalla diffusione di volantini alle bevute in osteria - la fedeltà a un’idea.

“Scopersi per la prima volta il Primo Maggio, quando vidi gli operai torinesi uscire nelle strade e nelle piazze e levare le loro bandiere contro fascisti e polizia, e affermare colla loro presenza la loro volontà di lotta - raccontava Vittorio Foa -. Debolezze ed errori di capi li segnavano all’isolamento e alla sconfitta, ma bastava vedere i loro volti per comprende che la storia e l’avvenire erano con loro, contro i profanatori e i loro complici. Tanti anni e tante vicende seguirono, ma quel più lontano ricordo di Primo Maggio di lotta accompagnò e diede un senso ai tanti primi maggio della galera, anche essi giorni di festa e di lotta, giorni di fede combattiva nell’avvenire”.

Il Primo maggio 1923, a Torino, un grande vessillo rosso viene collocato sulla Mole Antonelliana, mentre l’anno successivo, il Primo maggio 1924, Guido Picelli, deputato comunista, issa una bandiera rossa sul pennone di Montecitorio. Vi rimarrà quindici minuti prima che i questurini riusciranno ad ammainarla divenendo con il tempo l’esposizione di bandiere o semplici drappi rossi sempre più un’abitudine durante il ventennio in occasione del Primo maggio.

“Durante l’inverno - ricordava la partigiana Luciana Romoli - mia madre, con altre donne del quartiere, tagliava delle lenzuola e con dei coloranti rossi le trasformava in bandiere da appendere il Primo Maggio dove era possibile o sui ponti della ferrovia. Erano piccole azioni clandestine, anche se rischiose, ma era l’unico modo per festeggiare il giorno dei lavoratori”.

“Il Primo Maggio 1944, durante l’occupazione nazifascista di Roma - raccontava Giovanna Marturano - la città si svegliò con decine di scritte sui muri e sui mezzi di trasporto pubblici. Mi ricordo benissimo di una enorme bandiera rossa che sventolò per due giorni su un palazzo di un quartiere popolare, il prenestino, lo chiamavano il grattacielo perché era la costruzione più alta del quartiere”. Bandiere, ma non solo. Passeggiando per Savona indossando cravatta e garofano rosso Sandro Pertini fà imbestialire il prefetto. E non è il solo.

“Io lasciai l’Italia nel 1926 - raccontava il futuro presidente della Repubblica -. La mia vita si è svolta prima all’Università di Genova, poi a quella di Firenze, quindi come professionista a Savona. Il mio studio fu devastato due o tre volte. Vidi un Paese di violenti, gli anni Venti furono il periodo della sopraffazione fascista. Molti erano intimiditi da quelle violenze e sostenevano che non si dovevano provocare i fascisti, per non indurli a infierire. Questo non è mai stato il mio atteggiamento. Sono stato bastonato perché il Primo Maggio andavo in giro con una cravatta rossa. Sono stato mandato all’ospedale perché, nella ricorrenza della sua morte, ho appeso alle mura di Savona una corona di alloro in memoria di Giacomo Matteotti. Sono stato arrestato per aver diffuso un giornale significativo: ‘Sotto il barbaro dominio fascista’. Ho vissuto i miei vent’anni così e non me ne pento”.

“L’ultimo Primo Maggio che ho trascorso in patria - affermava Pietro Nenni - fu quello del 1926. Ero in carcere a San Vittore a Milano per certi volantini clandestini. Fu una giornata di grande tensione giacché il carcere ospitava i sicari che avevano pugnalato Matteotti, Domini, Volpi, eccetera. Ci fu una specie di saluto mattutino da cella a cella a base di imprecazioni contro Mussolini e i suoi sicari, di viva il Primo Maggio e viva Matteotti. Da una cella fu esposto un cencio rosso che mise in subbuglio la direzione del carcere”.

“Il 1° maggio del 1937 - è il ricordo di Oreste Lizzadri - passò tutt’altro che inosservato a Roma. I fornaciari si astennero in massa dal lavoro; su alcuni palazzi in costruzione sventolò per qualche ora la bandiera rossa; diverse vetture tranviarie, subito costrette a rientrare, uscirono dal deposito con la scritta “Viva il 1° Maggio”. Ma l’episodio più significativo e anche più spassoso di quel 1° maggio fu la caccia alle cravatte rosse da parte della polizia. Cittadini di ogni ceto che nulla sapevano della manifestazione, vennero fermati per la strada e invitati, con quei modi che la polizia fascista ha poi trasmesso alla celere, a togliersi la cravatta e di recarsi al commissariato. A nulla valsero proteste ed esibizioni di tessere fasciste o di altri documenti più rappresentativi, come quelli di sciarpa littorio o di ante marcia. Niente da fare. I più zelanti, come sempre avviene, andarono più in là: colpirono tutte le sfumature del rosso, dal rosa pallido al rosso acceso. Ancora oggi, a tanti anni di distanza, c’è qualche ingenuo che si domanda se per caso, la cravatta di cui fa sfoggio il poliziotto suo vicino di casa non sia quella strappatagli, con modi inurbani e senza ragione, in quel lontano 1° maggio del 1937”.

Neppure i confinati politici rinunciano alla manifestazione. “Non si trattava, è chiaro - dirà Celeste Negarville - di fare delle manifestazioni di massa, ma si trattava di fare una manifestazione comunque, anche nelle mani del nemico, anche nelle condizioni in cui l’oppressione assume una forma diretta”.

“Sono le sette. Proprio ora è suonata la sveglia. C’è animazione in carcere nei cameroni dei politici - raccontava Salvatore Cacciapuoti - Nervosismo tra le guardie. Noi siamo in festa, e c’è allegria anche perché abbiamo la ‘doppia quota’. Ci leviamo. Si sentono frasi d’augurio di qua e di là che si incrociano. Qualche guardia, di quelle buone, ci strizza l’occhio. Abbiamo marcato alla spesa, tutti un quarto di vino, e molti compagni hanno stirato il pantalone sotto il pagliericcio vogliamo far sapere a chi occorre - attraverso qualche segno esteriore - che celebriamo il nostro giorno, il giorno dei lavoratori. Ma la direzione ordina che il vino non ci sia dato. E allora: Be’, a noi interessa che il direttore riferisca al ministero affermando che ‘anche quest’anno i comunisti hanno festeggiato il 1° Maggio’”.

 All’indomani della Liberazione, il Primo maggio 1945, giovani che non hanno memoria della Festa del lavoro e anziani si ritrovano, insieme, nelle piazze di tutta Italia. “Ho assistito in seguito, nel corso di più di dieci anni, a centinaia di manifestazioni delle quali Di Vittorio fu oratore ufficiale, ma quel Primo Maggio resterà tuttavia, per me, indimenticabile”, racconta Anita Contini, seconda moglie di Giuseppe Di Vittorio. “Piazza del Popolo non fu mai così bella, mi sembra, come quella mattina di sole: lunghi cortei di lavoratori, le bandiere bianche, rosse e tricolori alte nel vento, giungevano da ogni quartiere della città, accompagnati dalle bande dei tranvieri e dei ferrovieri”.

Anita ricorda “la banda di Madonna della Strada che avanzava tra grandi applausi, preceduta da un’immagine religiosa. Tutti portavano abiti lisi e i volti apparivano segnati dalle lunghe privazioni, e tuttavia un'intima gioia, una fiducia in sé, uno slancio di speranza, sembrava animare e spingere la folla. Risuonavano i canti e grida di evviva. Gruppi di giovani, seduti per terra in cerchio, cantavano inni partigiani. Le ragazze distribuivano coccarde tricolori e garofani rossi”. Quelle bandiere, quei simboli, quei canti, quei colori ai neanche negli anni più neri della nostra storia abbiamo rinunciato e che oggi come ieri mostriamo fieri, con la consapevolezza, forte e inamovibile, di servire una causa grande, una causa giusta.

“Il Primo Maggio - diceva Giuseppe Di Vittorio - i lavoratori del mondo intero, celebrando la potenza invincibile del lavoro, rivendicando il loro diritto alla conquista di migliori condizioni di vita riaffermano la loro volontà collettiva di accelerare la marcia verso l’emancipazione del lavoro, che libererà tutta l’umanità dal timore delle crisi, dalla paura della fame, dall’incubo della guerra, ed aprirà ad essa la via radiosa del benessere crescente e d’un più alto livello di civiltà. Il lavoro è creatore di beni; il lavoro eleva gli uomini, li rende migliori e li affratella; il lavoro è pace”.

E allora buon Primo Maggio a tutte e tutti noi compagni e compagne. Che sia un Primo maggio di pace e lavoro.