Ricoverato il 29 febbraio nel reparto malattie infettive dell’Ospedale dell’Università centrale delle Asturie (Huca) a Oviedo a causa di una polmonite associata al Coronavirus, moriva lo scorso 16 aprile, dopo aver lottato strenuamente per mesi, Luis Sepúlveda, scrittore, giornalista, sceneggiatore, poeta, regista, attivista politico. È successo ormai un anno fa, eppure sembra ieri.

Membro della scorta personale del presidente cileno Salvador Allende racconterà:

Io non ero al Palacio de la Moneda durante i bombardamenti. Ci alternavamo nell’affiancare Allende: io e altri compagni quel giorno fummo distaccati a Santiago, di guardia a un pozzo di acqua potabile, obiettivo sensibile dei fascisti. Il primo istinto fu quello di andare subito alla Moneda. Ma fu impossibile, ovunque c’erano soldati che sparavano, morti. Un mortale senso di impotenza mi assalì. Però quel giorno riuscimmo a raggiungere un ospedale, dove ascoltammo l’ultimo discorso del presidente a Radio Magallanes. Una meravigliosa chiamata alla responsabilità, alla sopravvivenza: ci chiedeva di non farci uccidere, la nostra vita era necessaria per organizzare la Resistenza. I compagni alla Moneda, invece, morirono tutti.

Sepúlveda fu prigioniero politico durante il colpo di Stato di Pinochet. “Dispongo i calici con i nomi dei miei amici che non ci sono - diceva nelle ore successive alla sua morte  - dei miei fratelli che difesero La Moneda, di quelli che passarono nei labirinti dell’orrore e non parlarono, di quelli che crebbero nell’esilio, di quelli che fecero tutte le battaglie fino a sconfiggere il miserabile che ha gettato un’ombra sulla nostra vita per sedici anni ma non ci ha tolto la luce dei nostri diritti. Con tutti loro brinderò con gioia alla morte del tiranno”.

Incarcerato, torturato ed esule, Luis è stato, per tutti noi, un dispensatore di sogni, un poeta rivoluzionario, un intellettuale combattente che non smetterà mai di sognare e di insegnare a farlo. Le sue esperienze, sebbene raccontate in maniera astratta, sono il punto di partenza di ogni sua narrazione, costantemente intrisa di lotta per un mondo migliore. Narrazioni immediate, semplici, ma mai banali, dedicate ed offerte ad un pubblico di ogni età.

La favola - Luis era solito dire - per me, è una maniera per condividere qualcosa con lettori giovanissimi, che presto diventeranno adulti e cittadini responsabili”. Da Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare a Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico, da Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa a Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà ci ha insegnato tutto quello che un bambino dovrebbe imparare e un essere umano adulto dovrebbe non dimenticare per continuare a ritenersi veramente tale.

Anche per questo grazie, Luis. Grazie per averci messo di fronte alle grandezze e miserie della storia del Novecento. Per aver scelto la letteratura per dar voce a chi non ha voce. Per tutti i sogni che ci ha regalato, per la coerenza, la correttezza, l’esempio. Grazie perché bisogna essere grandi per saper parlare ai piccoli. Grazie per averci commosso, divertito, fatto riflettere. Grazie perché tutti - almeno una volta nella vita - ci siamo sentiti come Fortunata, e averla conosciuta ci ha aiutato a sentirci meno diversi, meno soli.

Spiegava il poeta una volta al País “la buona notizia è che la Storia vera è stata la storia dei perdenti perché i vincenti si sono fatti riscrivere la storia a modo loro. È a noi scrittori che tocca dare voce ai dimenticati (…) Sono uno scrittore perché non so fare altro che raccontare storie. Ma sono anche un essere sociale, un individuo che rispetta se stesso e intende occupare un piccolo posto nel labirinto della storia. Da questo punto di vista, sono il cronista di tutti coloro che giorno dopo giorno vengono ignorati, privati della storia ufficiale, che è sempre quella dei vincitori”.

Raccontare bene una storia - ci hai insegnato - è l’unico dovere di uno scrittore, non cambiare la realtà, perché i libri non cambiano il mondo. Lo fanno i cittadini”. Ci mancherai, Luis, già ci manchi. Ci manca la tua leggerezza, il tuo impegno, la tua empatia, il tuo coraggio.

“Sono morto tante volte”, hai detto una volta. “La prima quando il Cile fu stravolto dal colpo di Stato; la seconda quando mi arrestarono; la terza quando imprigionarono Carmen mia moglie; la quarta quando mi tolsero il passaporto. Potrei continuare”. Per noi, Luis, tu non morirai mai. Continuerai a vivere nei tuoi libri, nei nostri ricordi, nei sorrisi e nelle lacrime che ci hai strappato.

"Hai paura della morte tu che sei ‘morto’ così tante volte?", ti è stato chiesto. E tu hai risposto così: “In quel preciso istante Sepúlveda non smetterà di vivere, perché c'è sempre un pezzo di esistenza oltre il racconto, oltre le storie, oltre la letteratura. Sarà come abbandonare qualcosa che mi appartiene. Mi è accaduto con il Cile e l’ho ritrovato, trent’anni dopo. Potrebbe accadere anche con il romanzo, il giorno in cui me ne dovessi allontanare. Tutto finisce, ma niente è davvero definitivo”.

Niente è davvero definivo, è mai come in questo caso è vero. Perché i tuoi libri sono stati dei bellissimi semi che non smetteranno mai di fiorire, in tutti noi.