In tempi come i nostri, in cui l’idea di lavoro viene messa in discussione da una innovazione tecnologica sulla quale si è riflettuto ancora poco e male, è inevitabile che il lavoro torni a essere un tema non ovvio, che richiede un’attenzione nuova.

Ci troviamo alle spalle decenni in cui la trasformazione del mercato del lavoro, la proliferazione della condizione di incertezza, le esternalizzazioni, le scatole cinesi dei subappalti, hanno creato una nuova e più forte alienazione nell’agire quotidiano di chi lavora. Siamo arrivati, o siamo vicini, al grado zero del lavoro, ed è tempo di ricominciare a crescere e di riconquistare diritti, o almeno di provarci.

Si lavora di più, si guadagna meno, si lavora peggio e in modo più casuale. Sono questioni che chiamano a un nuovo confronto con l’analisi del lavoro operaio di Simone Weil. La riduzione dell’essere umano a funzione, a macchina, l’annichilimento del pensiero, del mondo spirituale, durante il tempo del lavoro, si è fatta evidente al di fuori del mondo della fabbrica, ha investito il cantiere, i servizi e la logistica governati dall’algoritmo, ha investito il lavoro culturale, il lavoro d’ufficio, il lavoro pubblico e di cura, il mondo della sanità.

Ma se nel mondo della fabbrica la razionalità, l’efficienza nella costruzione del prodotto, in termini di tempi e qualità, indicava una direzione, benché oppressiva, oggi la flessibilità estrema vanifica gli obiettivi, lascia l’impressione di un giro a vuoto. Fare un buon lavoro diventa una mozione esistenziale, una rivolta sisifea contro le pressioni di un mercato che non mira a un lavoro ben fatto, né alla tutela dell’essere umano che lo svolge, né – certamente nel caso italiano – al reddito e alla dignità di chi lavora. E questa è una condizione drammatica che ormai riguarda tutte e tutti, non solo le categorie segnalate da sempre come le più fragili, non solo le giovani generazioni e le donne. C’è, in questo momento storico, la sensazione di uno scadimento condiviso e pervasivo nel mondo del lavoro.

Il tessuto della vita collettiva

Come fa un lavoro così ridotto a essere il tessuto della vita collettiva? Eppure sono poche le circostanze in cui una persona incontra il mondo, vario e complesso, si mette alla prova in azione di fronte agli altri, si rivela a sé stessa, incontra ceti sociali diversi dal proprio, altri stili di vita, altre prospettive culturali, dove le viene richiesto di affrontare le questioni, le difficoltà come essere umano in relazione ad altri essere umani. È il lavoro la circostanza principale in cui questo è avvenuto. Senza lavoro, il tessuto sociale si scolla, la vita, solitaria, appare insensata.

A partire da queste riflessioni, per quanto qui accennate e incompiute, ci piacerebbe fare della campagna referendaria l’occasione per riflettere in controluce sul lavoro che vale la pena. Esiste? C’è ancora la possibilità di lavorare creando il tessuto della vita comune? Quali ne sono le condizioni perché questo avvenga?

Accanto ai quattro referendum sul lavoro proposti dalla Cgil, c’è quello sulla cittadinanza, che, se fosse vinto, permetterebbe al nostro paese di somigliare di più a se stesso, di superare almeno in parte l’esclusione di persone che sono fin dall’infanzia parte integrante del tessuto civile. L’esclusione ostinata di una parte di sé, questo paese la sta soffrendo da troppo tempo, da troppo tempo vive in una privazione di realtà, in un delirio che sarebbe ora di superare.

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Un atto di militanza narrativa

L’iniziativa che parte oggi su Collettiva mobilita un gruppo di scrittrici e scrittori che aderiscono alla campagna referendaria della Cgil che si concluderà col voto dell’8-9 giugno. Un voto per il lavoro, per la salute e la sicurezza, per il diritto di cittadinanza. Alla domanda: “cosa possiamo fare per questa campagna?”, queste “penne” hanno trovato la risposta in quello che sanno fare, scrivere, e quindi in un atto di militanza narrativa.

Alcune delle firme di questa “collana” conoscono il mondo del lavoro e l’hanno già raccontato nei loro libri. Altre lo incontrano e guardano qui per la prima volta. Ma occorre essere consapevoli di una tradizione - il racconto del lavoro - che nella letteratura italiana non ha un posto affatto marginale. E, con questo piccolo contributo, provare a interrompere da un lato il difetto del silenzio, dell’assenza di parole sul lavoro, dall’altro il difetto di una certa estetica della sfortuna che, soprattutto nelle cronache giornalistiche, si è affermata negli ultimi e non pochi anni.

Ma, come scrivevamo sopra, nel lavoro non deve esserci una sfortuna assegnata dal destino, e non deve esserci disgrazia. Lo sapevano bene Primo Levi, Ermanno Rea, Paolo Volponi, i “grandi” del passato che ne hanno scritto. Ma lo sapeva bene, in fondo, anche il Vitaliano Trevisan di Works. Nel lavoro, per quanto oppresso e non gratificante, l’essere umano non deve perdere mai il proprio libero arbitrio, la facoltà di decidere di sé e insieme agli altri. E lo sanno le lavoratrici e i lavoratori che ci hanno raccontato le loro storie e i loro mestieri. Il problema è che il lavoro va sempre difeso, presidiato, curato. E da molto tempo questo paese e il mondo intero hanno smesso di farlo.

Una serie di incontri e dialoghi

Ma questa campagna sta anche facendo qualcosa per chi scrive. I racconti che saranno ospitati da Collettiva da qui alle prossime settimane sono il risultato, il resoconto potremmo dire, dell’incontro che ciascuna scrittrice (o poeta) e scrittore ha avuto con una lavoratrice o un lavoratore. Sono la resa testuale di dialoghi preziosi soprattutto per gli autori, che hanno potuto guardare e ascoltare l’obiettiva realtà, e restituirla in una storia scritta, in un ritratto.

Se – solo per citare i primi tre racconti in ordine di pubblicazione – Veronica Galletta dialogando con Sandro Vitale, che si occupa della manutenzione delle gru con Fincantieri, scopre che è un noi, una voce collettiva, quella che è necessario raccontare, invece Daniele Petruccioli, ascoltando un portuale di Palermo, trova al cuore della questione proprio la sensatezza del lavoro, la necessità del riconoscimento e della messa a frutto della sapienza e dell’esperienza. Mariasole Ariot, raccontando l’emersione di Emanuela da una esperienza di precarietà e l’incontro con la Fiom, ci permette di capire di cosa abbiamo bisogno perché il lavoro faccia la sua parte nella sensatezza della vita.

Potremmo anche intenderle come storie esemplari, queste che leggerete e che speriamo vi piaceranno. Esemplari nella loro concretezza sociale e politica, nelle parole e nei bisogni che sollevano e ai quali la Cgil con i referendum vuole rispondere. Esemplari: alcune vite in rappresentanza di molte altre, le vite che compongono il nostro mondo del lavoro ignorato da decine di anni nei suoi diritti, nel suo orizzonte di speranza e attesa. Un mondo che vuole rimettersi in cammino.