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Il racconto
L’incipit per questo racconto arriva qualche ora dopo il nostro incontro, quando Sandro mi scrive su WhatsApp: "Se vuoi ho qualche foto mentre saliamo e un video che riprende tutta Palermo". La prima persona plurale è una parte importante di questo racconto, in qualche modo ne è il cuore. Chi scrive sa che in letteratura è poco diffusa, si presenta rigida, può sfociare in un racconto ideologico. Ma questa non è un’opera letteraria, non è un racconto di finzione. È un racconto e basta, e quindi può permettersi di usare il noi e di iniziare dalla fine, riafferrare la storia dalla coda per tirarsi su.
È un video panoramico, fatto dal braccio della gru. Le montagne dietro Palermo, il Monte Pellegrino in primo piano. "Il più bel promontorio del mondo", scrive Goethe nel suo Viaggio in Sicilia. Palermo si allunga verso la Conca d’Oro, si colgono i viali alberati, lo sviluppo della città, ordinato vicino al porto, si sfrangia all’orizzonte. L’inquadratura ruota verso il mare, mostra le banchine, il molo dal lungo braccio diritto e dalla linea pulita, i bacini di carenaggio.
Cosa si prova quando si è là sopra, gli chiedo.
Cosa si prova quando si è là sopra, gli chiedo. "Saliamo in punta, ci sediamo, fumiamo una sigaretta. Il Monte Pellegrino sembra che lo prendi con le mani", mi risponde, e sorrido. Gli chiedo se Palermo è cambiata molto in questi anni. "Da là sopra sembra sempre uguale, poi quando scendi ti rendi conto che è diversa". Cambiamo discorso. Mi interessa sapere di più del tuo lavoro, dico. "Del nostro lavoro", mi corregge lui.
Sandro Vitale lavora per una cooperativa che ha il contratto di manutenzione di gru e carroponti con Fincantieri, al porto di Palermo. Fa questo lavoro dal 1996. Quasi trent’anni, gli dico. "Quasi trent’anni", risponde.
Lo intervisto nel suo giorno di riposo, lui in auto e io nel mio studio davanti al pc. Ha un giaccone rosso della Fiom, con la spilletta di Libera appuntata sul petto. Mentre parla non riesco a smettere di guardarla. Vivo lontano dalla Sicilia dal 1996, lo stesso anno in cui Sandro ha cominciato a lavorare come manutentore di gru, e a stare lontano questo succede: il pensiero vaga, a volte si ingessa intorno al sentito dire. Non ti ricordi quasi più delle persone che invece giù ancora vivono, di come un giaccone o una spilletta possano essere una dichiarazione di appartenenza. La rivendicazione di un’identità.
"Il fatto è che di lavorare si parla tanto, ma quelli che ne parlano più forte sono proprio quelli che non hanno mai provato", dice Libertino Faussone, lo straordinario operaio raccontato da Primo Levi ne La chiave a stella, e per una volta tanto parlo di lavoro con chi prova da trent’anni. Sandro fa un lavoro molto simile a quello di Libertino, che le gru e i carroponti li montava in giro per il mondo, mentre Sandro ne fa manutenzione, sempre nello stesso posto, il porto di Palermo. "Ho anche provato ad andare a lavorare a Milano", mi racconta, "ma ho resistito una settimana. Non mi sono trovato con le persone".
In un altro video si vede qualcosa salire su per una gru. È un movimento di pixel appena, un uomo che sale. Penso a Philippe Petit, che il 7 agosto del 1974 tese il suo filo fra le Torri gemelle, e camminò da una all’altra. Non soffri di vertigini, gli chiedo, e la risposta è ovviamente no. Trent’anni a salire e scendere dalle gru, 120 metri di altezza. È un numero che mi ripeterà più volte e con un certo orgoglio. Equivalgono a un palazzo di una quarantina di piani, "da salire con una scala a petto, che non è come quelle condominiali". Solo imbracati, e protetti dal parapetto, fino alla cabina tutta di vetro. Bisogna essere quadrati per fare questo lavoro, dico. "Devi essere sicuro, tranquillo, perché hai la responsabilità di gente che sta sotto", risponde serio. Le gru sbracciano per tutta l’area del cantiere, e durante le manovre di manutenzione si provano le celle di carico, sollevando pesi di centinaia di tonnellate.
"Una gru da molo, uno di quei bestioni a braccio retrattile, e un carroponte fantastico, 40 metri di luce e un motore di sollevamento da 140 cavalli; cristo che macchina, domani sera bisogna che mi ricordi di farle vedere le foto", dice Libertino, che mostrava le foto dei suoi cantieri con lo stesso orgoglio di Sandro.
"Il cantiere di Fincantieri di Palermo fa manutenzione e riparazione, anche se qualcosa la costruiamo anche noi", mi dice. "Mezze navi, solo mezze, ci arriva la commessa da Monfalcone e poi la mandiamo con le zattere a Genova, per assemblarle".
Fondato nel 1897 da Ignazio Florio della nota famiglia, scopro, leggendo cenni di una storia imprenditoriale come tante, fatta di raggruppamenti e passaggi di mano, di opere realizzate e opere dismesse e altre opere previste. L’ultima, un bacino da 150mila tonnellate, promesse per migliaia di posti di lavoro, il tentativo di un rilancio industriale simile a tanti altri in Italia.
"Quando uno è lassù in cima, da solo, e tira vento, e il traliccio non è ancora controventato ed è ballerino come una barchetta, e lei vede a terra le persone come le formiche", dice Libertino Faussone.
Chi come me è stato per tanti anni responsabile di cantieri pensa immediatamente al rischio, agli incidenti.
E il vento?, chiedo a Sandro. Chi come me è stato per tanti anni responsabile di cantieri pensa immediatamente al rischio, agli incidenti. "Per il vento ci sono gli anemometri alla base della gru. Sopra i 25 km/h non lavoriamo, ma ci sono anche in cima, in cabina, perché se mentre sono su il vento aumenta, bisogna fermarsi. Il problema con il vento sono le raffiche. Non posso rischiare di sollevare una sezione da 400 tonnellate con una raffica. Ci sono persone sotto che lavorano".
E con la pioggia, o la nebbia, gli chiedo. "Con la pioggia lavoriamo senza problemi", dice, "e qui di nebbia abbiamo solo quella delle grigliate", e ride. E quante ore stai su, gli chiedo. "Quattro, cinque", dice. Sono tante, gli dico. "Sono tante", concorda, "ma quando guardo di sotto penso che siamo fortunati, perché a vedere i saldatori, il saldocarpentiere, entrare nei doppi fondi, con le tute di cuoio, con il caldo, a saldare, prendere i fumi... noi non stiamo a contatto con tutto questo". Sono lavoratori di ditte in subappalto, gli chiedo. "Tante, e tanti operai, di tante nazionalità diverse, e contratti per tre mesi, un mese".
Penso a cosa dice il Testo Unico in materia di sicurezza, ogni ditta che entra in cantiere è un’interferenza, e ogni interferenza un aggravio di rischio. Gli racconto di quando partecipai a un’ispezione per il dissequestro di una banchina, nel porto di Livorno. Due uomini morti nello scoppio di una cisterna di un deposito di gas costiero, il responsabile della sicurezza deformato da due notti in piedi, l’orizzonte punteggiato da navi, che in rada aspettavano di entrare in porto. Le chiamano morti bianche, ma di bianco non hanno nulla. Erano morti carbonizzati.
"Nel nostro lavoro gli incidenti sono rari", mi dice Sandro, "e sono sempre dovuti all’errore umano. Queste bestie sono troppo grandi perché non siano ben calcolate". E come è cambiato il lavoro in questi trent’anni, gli chiedo, e mi racconta di come "prima i quadri erano tutti elettromeccanici, con bobine, teleruttori, e quindi gli interventi erano molti di più. Sali e scendi dalle gru, dai carroponti, e ora invece con gli inverter, con i PLC, è tutto elettronico, gli interventi sono diminuiti di tanto, e con loro gli incidenti".
Chiedo delle malattie professionali, di quali siano in genere, e Sandro mi racconta che ha una pratica aperta con l’Inail per un’ernia. "È normale, tanto tempo seduti là sopra, e poi sui mezzi, le buche in cantiere. E trent’anni di esposizione alla salsedine".
E cosa speri, un cambio di mansione, chiedo.
"Io gliel’ho detto anche al nostro medico del lavoro, non mi dica che non posso più salire sulle gru. Il giorno in cui non posso più salire sulle gru presento le dimissioni e mi cerco un altro lavoro", mi risponde, per la prima volta parlando al singolare.
"Lei deve sapere che montare una gru è un bel lavoro, e un carro-ponte ancora di più, però non sono mestieri da fare da soli", dice Libertino Faussone.
Perché parli sempre al plurale, gli chiedo.
Dico sempre noi perché siamo come una famiglia.
"Dico sempre noi perché siamo come una famiglia, al mille per mille. Siamo stati assunti insieme, siamo cresciuti insieme", mi risponde.
È la Fiom che vi ha reso un noi, gli chiedo.
"No, eravamo un noi già da prima", e mi racconta dello sciopero, di quando la nuova cooperativa che vinse l’appalto mandò otto lettere di licenziamento, su dieci che erano, ma scioperarono tutti, anche i due che non avevano perso il lavoro, e della Fiom che li aiutò, senza retrocedere. Furono molti giorni, forse due settimane, e un altro sindacato disse loro di smetterla, che danneggiavano tutti. Mi racconta che il responsabile della cooperativa voleva metterci i suoi, anche se si occupavano di impianti a bordo nave e impianti elettrici a terra, nelle palazzine dentro al cantiere. "La differenza fra un impianto civile e uno industriale è enorme". Alla fine la cooperativa ha ceduto, e loro hanno conservato il loro posto.
Lo ascolto, e un poco sono delusa da questa risoluzione. Mi ero immaginata uno scenario in cui questi diversi operai dovevano salire sulle gru, e si ritrovavano persi come Mr Magoo, e il loro capo insieme a loro. L’arroganza di chi non sa e comanda, pretendendo che i sottoposti facciano. Sono tutti uguali, figli dell’effetto Dunning-Kruger, quella deformazione del cervello per cui chi non ha idea di come funzionino le cose pensa di poter governare tutto. L’esempio internazionale, in questo primo squarcio di 2025, è uno solo.
Si scambiano gli interventi, mi spiega Sandro, "ci aiutiamo con le ferie, perché ci sono attività che si possono fare solo quando tutto si ferma. A Natale, ad agosto. Aprire i motori, pulire gli anelli, le spazzole". Mentre lo ascolto immagino il cantiere deserto, abitato solo da loro. Sono manutentori, fantasmi che spuntano quando il cantiere dorme. Smontano, puliscono, richiudono. Ricuciono le macchine, le lucidano prima che ripartano.
Conosciamo i nostri limiti. Non sappiamo fare tutto.
"Conosciamo i nostri limiti", dice. "Non sappiamo fare tutto. C’è un tipo di intervento per cui io non sono ferrato, ma il mio compagno in dieci minuti è in grado di risolvere il problema, allora ci va lui. È solo questo".
Gli chiedo se non gli piacerebbe essere assunto direttamente da Fincantieri, "a questa età ormai ce la siamo giocata", risponde ridendo, ma certo sì, gli piacerebbe. "Perché le aziende siciliane si sa come sono fatte".
Me lo dice con la sua giacca rossa della Fiom e la spilletta di Libera, dall’abitacolo di un’auto in sosta a Palermo, e io nel mio studio a Livorno no, non lo so come sono. Me ne sono andata prima di saperlo, anche se gli potrei raccontare di tutte le aziende che ho incontrato, siciliane per nulla e anzi, piemontesi lombarde emiliane e toscane, che si comportano in modi simili. Anche se il racconto di Sandro non ha nulla di abnorme. Le solite cose, ferie non usufruite e mai pagate, straordinari notturni passati come diurni.
Si chiude la nostra intervista, arriva il filmato. Quello in cui allunga una mano e tocca il Monte Pellegrino. "Oggi è una bellissima giornata", dice la voce nel video. "Il cantiere visto dall’alto", aggiunge didattico. Il mare calmo, un operaio che sale. "Mio compare", dice la voce, e il tono è divertito. Sotto, le banchine sottili come chele di granchio, intorno i monti scabri dal profilo rugoso. Palermo quieta sullo sfondo.
Veronica Galletta, scrittrice e ingegnera, è nata a Siracusa e vive a Livorno. Con Le isole di Norman (Italo Svevo Edizioni 2020) ha vinto il Premio Campiello Opera Prima. Con Nina sull’argine (minimum fax 2021) è stata finalista al Premio Strega e ha vinto il Premio Letteratura d’Impresa. Il suo ultimo romanzo, Malotempo (minimum fax) è uscito a marzo di quest'anno.
Illustrazione di Silvia Marseglia
L’iniziativa
Collettiva ospita un gruppo di scrittrici e scrittori che aderiscono alla campagna referendaria della Cgil che si concluderà col voto dell’8-9 giugno. Alla domanda: “Cosa possiamo fare per questa campagna?”, queste “penne” hanno trovato la risposta in quello che sanno fare, scrivere, e quindi in un atto di militanza narrativa. I racconti sono il risultato, il resoconto potremmo dire, dell’incontro che ciascuna scrittrice (o poeta) e scrittore ha avuto con una lavoratrice o un lavoratore. Sono la resa testuale di dialoghi preziosi soprattutto per gli autori, che hanno potuto guardare e ascoltare l’obiettiva realtà, e restituirla in una storia scritta, in un ritratto.