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Nei giorni scorsi è venuto fuori in maniera deflagrante il tema dei finti sould out, a conferma di un mercato musicale sempre più gonfiato, costruito sulle visualizzazioni e gli streaming, sugli sponsor e i personaggi, piuttosto che su un percorso di crescita artistica autentica. Ne abbiamo parlato con Paolo Talanca, critico musicale, docente e nella giuria del Premio Tenco.
Paolo Talanca, finti sold out: vaso di Pandora o scoperta dell’acqua calda?
È chiaro che il tema esiste e lo conosce bene chiunque per lavoro si occupi di musica a vario titolo, dai musicisti ai critici. Circa un anno e mezzo fa usciva un mio pezzo per Avvenire, che avevo scritto intervistando vari artisti da Morgan, a Cristicchi, a Cammariere e tanti altri ancora, ai quali chiedevo quali fossero stati i loro inizi musicali. L’obiettivo era mettere in evidenza quanto oggi stiano progressivamente perdendo di valore il gusto e la qualità musicale. Intanto sicuramente non è più necessario avere un repertorio, visto che oggi gli stadi pare che li facciano tutto. Inoltre l'evento è concepito come qualcosa in cui la canzone deve suonare esattamente come nel disco, si deve sapere prima la playlist. E ti vai a vedere, da lontanissimo, un artista che sta sul palco magari anche senza strumenti, nel caso dei rapper, o con musicisti che fanno finta di suonare su sequenze e basi preregistrate. Insomma, stava diventando un'altra cosa.
L’essere dei bravi musicisti non conta più?
Purtroppo tutta questa situazione prescinde dalla capacità musicale, perché l’evento è il centro di tutto. Si deve andare alla ricerca del sensazionalismo, ci si accorda coi tempi dei social, e a una grande agenzia che organizza i concerti conviene di più produrre un artista che non ha repertorio, però ha più hype sui social, piuttosto che un altro con un repertorio che si è costruito nel tempo. Questo meccanismo monta da diversi anni. Federico (Zampaglione ndr) ha fatto benissimo a fare quel post, perché ha colpito nel cuore nel vivo e poi dopo molti gli sono andati dietro, per esempio Alex Britti.
Voi del Premio Tenco lavorate da anni in “direzione ostinata e contraria”. Sempre a Sanremo, ma dall’altra parte della strada anche metaforicamente.
Premio Tenco e Festival di Sanremo sono proprio due modi di pensare la musica differenti, ma che fino a vent’anni fa ancora coesistevano con un senso. Da un lato la musica d’autore, dall’altro il pop di un certo livello. Ora non è più così. A ottobre scorso, conoscendo tutta questa situazione da anni, ci abbiamo dedicato proprio uno dei pomeriggi della rassegna del premio Tenco chiamando a raccolta a Sanremo tutti gli attori, i premi di qualità, i presidi culturali, gli spazi dove ancora di suona davvero. Musicultura, la Fondazione De André, la Fondazione Gaber, il premio Ivan Graziani. Poi si sono aggiunte le Officine Pasolini di Roma con Tosca, dove abbiamo fatto un incontro ad aprile. A Bologna abbiamo parlato del fatto che sarebbe importante insegnare la canzone di qualità a scuola. Siamo stati al Medimax di Taranto.
A Sanremo, Amadeus presentava i cantanti con il numero di streaming raggiunti su Youtube. Oggi il valore musicale intrinseco non ha più peso senza quello commerciale?
Durante uno degli incontri che abbiamo fatto Tosca ha raccontato di quando, all'inizio delle rispettive carriere, lei, Vinicio Capossela, Samuele Bersani venissero presentati con il loro curriculum, gli album all’attivo. Oggi i giovani musicisti vengono presentati con “questo pesa 40 kg”. Ma bisogna rimettere al centro la musica, supportare i piccoli spazi, farli crescere e funzionare. Soprattutto dopo il Covid molti sono in ginocchio, se non completamente scomparsi.Si è creata una vera e propria bolla speculativa, che prima o poi scoppierà. E i primi a farne le spese saranno i lavoratori della musica.
D’accordo, tutto vero. Ma lo è anche che non tutti i musicisti bravi diventano famosi, e che spesso si resta prigionieri di una gavetta eterna: nei locali il massimo che ti si propone per andare a suonare è cibo e consumazione gratis.
C'è sempre stato chi ce la fa e chi non ce la fa, ma un conto è che questa cosa si realizzi in una situazione sana, in una situazione in cui per alcuni c’è la possibilità di farcela e farcela bene. Negli ultimi dieci anni, invece, l'unico caso di questo tipo che conosco è quello di Brunori, perché sono stati molto bravi, perché Dario una squadra forte e molto intelligente sin dai suoi esordi, con la sua etichetta Picicca. Ma è davvero un unicum, è la classica eccezione che conferma la regola. Sono i presupposti che non funzionano più. Perché è verissimo, la gavetta non sempre garantisce di farcela e molti non ci riescono. Ma il problema è che oggi tutti aspettano di andare a Sanremo e in televisione, come punto di partenza. E invece quello dovrebbe essere il punto di arrivo.
Sui finti sold-out Alex Britti dice "Non do la colpa al sistema, nessuno ti obbliga, è una scelta ma rischiosa". Però c’è anche da dire che i musicisti, soprattutto se molto giovani, sono in una posizione fragile, quasi “ricattabile”, rispetto a chi ha in mano il loro futuro artistico. Cosa ne pensa?
Le premesse di Zampaglione sono più che condivisibili, ma io sono d’accordo con Britti, perché a un certo punto entra in gioco il carattere, l’apprendistato che si è fatto. Sembrerà un discorso da vecchi, ma se le cose si vogliono fare bene, si devono fare un passo alla volta. E questo vale per tutti gli ambiti. Quando ho iniziato la mia carriera di giornalista musicale avevo una strada precisa in testa e ho saputo dire dei no, anche perché se entri in un meccanismo, poi è difficile uscirne. Le scottature e i fallimenti fanno parte della vita. Ma io credo che oggi il problema sia che la generazione di genitori a cui appartengo non è in grado di trasmettere ai propri figli il concetto di “superamento del rifiuto”. I “no” ci saranno sempre, ma oggi se arriva una pagella negativa un genitore invece di accettarla va in uno studio legale. Parte tutto da lì. Tu inizi, ti propongono gli stadi, ma tu sai che quello stadio non te lo meriti, perché dopo due dischi non puoi meritarti di fare San Siro. E infatti dopo quattro mesi ti arriva la chiamata: "Guarda che non stiamo vendendo i biglietti”. Ecco, tu la domanda te la devi fare prima.
Altrimenti ti fai male. Ma d’altronde è un sistema che ti massacra, anche psicologicamente. Pensiamo a Sangiovanni, Angelina Mango e altri che sono entrati in crisi e hanno lasciato temporaneamente la musica. C’entra anche questo col meccanismo dei finti sold out?
Assolutamente sì, anzi è proprio il cuore, l'altra faccia della medaglia, è il riscontro del fatto che da un lato hai delle anime fragili, e dall’altro hai i numeri. Se devi accettare tutto e subito perché bisogna fare i numeri, a quel punto entri in una dinamica disumana, terrificante. L’essere umano ha bisogno di grandi slanci, ma anche di noia, di un mare calmo in cui riflettere, dedicare del tempo a se stesso, ai propri affetti, ma anche per capire a che punto si è arrivati. Invece nel contesto in cui viviamo tu sei un cioccolatino da scartare. Stai male se non ce la fai, ma anche se ce la fai, perché non hai il tempo di sentire quello che stai vivendo come il frutto di un percorso.
Pensiamo a un altro caso, quello dei Maneskin. Quanta responsabilità hanno gli artisti affermati che accettano di fare i giudici nei talent, la negazione suprema del percorso artistico fatto per step di crescita?
Paradossalmente io non demonizzo i talent, perché li trovo una risposta al fatto che internet abbia fagocitato le possibilità di far sviluppare un mercato reale. La televisione si è sostituita all'ufficio stampa che lavorava per bene, alla produzione fatta a piccoli passi. Il talent è un posto in cui si produce musica di un certo tipo con una certa idea di canzone. Se ci fosse un mercato musicale sano, il talent esisterebbe comunque, ma farebbe il suo. Penso anche che se Manuel Agnelli o Morgan vanno a X Factor e portano una riflessione di un certo tipo, può essere un’occasione preziosa. È il meccanismo basato solo ed esclusivamente sui talent che demonizzo. È quando il talent traina Sanremo. C'è stato un periodo in cui i vari Marco Carta, Valerio Scanu vincevano Sanremo perché venivano forti del televoto del talent. Ecco, quello è un meccanismo completamente distorto.