Una vita dedicata alla musica e alla solidarietà. Una carriera di oltre sessant’anni. Ma Beppe Carletti, che di anni ne ha qualcuno in più, si sente ancora un ragazzo. Ci sentiamo per commentare il premio appena assegnato ai Nomadi da Voci per la libertà e Amnesty International Italia. Tra commozione e ironia, ripercorriamo la storia di un gruppo nomade, di nome e di fatto, che non si è mai fermato.

“Ricevere questo premio è per noi un grande onore. Non ti premiano perché sei bello, e noi belli non siamo! Sono sessant'anni che salgo sul palco con gli amici di una vita e che insieme scriviamo questa storia. Amici che in questo lungo viaggio mi hanno dato tanto, così come il nostro pubblico, che ha sempre creduto in noi, nelle nostre canzoni, in quello che siamo. Abbiamo sempre dato un'impronta ben precisa alle nostre canzoni ed è chiaro che un gruppo che interpreta Auschwitz- Dio è morto poi non può fare cose che si allontanino troppo da quel modo di scrivere e suonare. Dio è morto è stata censurata. Anche Canzone per un'amica, che c'entra poco con il sociale, eppure è stata censurata. Abbiamo interpretato canzoni come Chico Mendes e Salvador Allende, che non tutti avrebbero avuto il coraggio di cantare. Noi le abbiamo fatte nostre queste storie, anche un po’ vissute, io sono stato in tanti dei posti che abbiamo cantato. Perciò questo premio è per noi il coronamento di tutto quello che abbiamo fatto. Il nostro è un impegno sociale, non politico. Se poi cantare Dio è morto vuol dire essere di sinistra, allora io sono di sinistra”.

Vi ha persino ricevuto il Presidente Mattarella per festeggiare i vostri sessant'anni.
Quello è stato un grande onore. Il Presidente ci ha ricevuti privatamente, siamo stati un po' insieme ed è stata una grande emozione.

Ha tutti i vostri dischi il presidente?
Qualcosa secondo me la conosceva.

Scherzi a parte, essere ricevuti al Quirinale dà la misura di quanto i Nomadi siano una vera e propria istituzione della musica. Uno dei pochissimi gruppi al mondo così longevi, più di un matrimonio in media. Come si fa a restare insieme per sessant’anni?
Le dirò una cosa, l’ho detto anche al Presidente: “non so se lo sa, ma noi siamo il secondo gruppo più longevo al mondo. Se lei potesse fare qualcosa con i Rolling Stone. Insomma chiedere se si possono fermare…”. Le persone ci portano nel cuore, il pubblico ci vuole bene e noi non lo abbiamo mai tradito. La nostra bandiera è sempre stata la coerenza. Io ho sempre viaggiato e scritto, e nelle canzoni raccontavamo quello che vedevamo.

E questo lo sa bene chi vi ascolta. Ripercorrendo la vostra discografia, ci si accorge che non avete solo raccontato i luoghi più sperduti al mondo, ma avete trasformato la vostra musica in un’occasione per supportali. Raccolte fondi, progetti. Uno tra i più belli, quello per i bambini vittime delle mine antiuomo.
Uno di quelli a me più chiari. Sono già stato quattro o cinque volte in Cambogia e ci tornerò l’anno prossimo. Lì abbiamo costruito una casa di accoglienza per i bimbi dimessi dall’ospedale, che se fossero tornati a casa loro, così menomati, li avrebbero mandati per strada a chiedere l’elemosina. Un’operatrice italiana che lavorava lì, Stefania, mi disse “mi devi costruire una casa”. E io risposi “ma non faccio mica il muratore”. Poi la casa l’abbiamo costruita davvero. Inaugurarla è stata una grandissima emozione. Ricordo che tenevo in braccio un bimbo a cui mancavano le gambe.

C’è stato un momento in cui avete capito che dovevate fare tutto questo? O piuttosto è venuto fuori tutto spontaneamente, iniziativa dopo iniziativa?
Sì, è stato così. La prima volta eravamo a Cuba, con Un bastimento di carta, un mare d’inchiostro. C’era ancora l’embargo e tante cose non arrivavano. Allora con gli amici dell’Arci Nova facemmo una raccolta di quaderni e matite. Fu un successo incredibile e da lì non ci siamo più fermati. In Madagascar abbiamo costruito una scuola. Abbiamo fatto dei progetti in India, in Tibet. Io quando vedo un bambino che sorride…è bello. È bello. Le cose sono venute da sé, non è che io le abbia cercate. Ma poi un passo dopo l’altro hanno cominciato a chiamarci sempre più spesso. Dovunque andiamo, qualunque cosa realizziamo, mettiamo sempre una targa: Nomadi e fans. Perché senza di loro non sarebbe possibile, ci contiamo molto.

Tra l’altro, ve lo avranno già detto tante volte, Nomadi di nome e di fatto. E la vostra è una vera e propria carovana nomade che vi segue in tour. Dando un’occhiata alle date del 2023, non vi fermate neanche il giorno di Natale.
Eh, ne ho fatti di concerti. Anche se io dico ancora che vado a fare una serata. Trovo che se ne abusi troppo della parola concerto. Oggi sono l’unico “Nomade” rimasto di quelli del ’63. Trent’anni stupendi li ho trascorsi con Augusto, con cui abbiamo gettato le fondamenta di questa casa, fondamenta profonde. Tanti no, tante porte in faccia perché dicevano “quelli sono comunisti”. Non è stato semplice andare avanti. Sono in tutto ventitré i componenti che si sono avvicendati al mio fianco in questi sei decenni. E mica finisce qua. Insomma, io ho settantasette anni, ma dopo questo premio di Amnesty avrò ancora tanto da fare. Ci sono tanti giovani impegnati, ma anche noi dobbiamo fare quello che possiamo, in base alle nostre forze.

A proposito di giovani, che ne pensa della musica che fanno? Noi stiamo parlando di impegno sociale, di ideologie, di una musica che è proattiva. Ma i cantautori, in questo momento storico, sembrano più concentrati sul racconto di una dimensione intima, che spesso coincide con una visione nichilista della vita. Siamo di fronte a un nuovo decadentismo musicale?
Negli anni sessanta tutti dicevano che i gruppi come il nostro avrebbero rovinato la musica. Ma non è stato così, e non penso che lo sarà neanche adesso. Certo, poi bisogna anche saper suonare però. Adesso usano l’Auto-Tune, cantano anche se sono stonati. Non voglio dire che non siano bravi, ma non è la mia cultura musicale. Io li ascolto questi ragazzi, per curiosità, per conoscere la musica nuova. Ma sa cosa? Nei loro testi non sento la speranza. Non c’è una parola di speranza. Ho sentito una canzone che dice “Questa è la fine del mondo e ti voglio vedere le ossa”, ma bella roba che è, scusi. 

Invece il vostro ultimo disco, Cartoline da qui, è ancora una volta una fotografia della realtà. Cito un titolo per tutti, Il caporale.
Difficilmente ci si mette a pensare di scrivere una canzone su chi sta dall’altra parte, per esempio sul caporale. Ma le cose in musica si capiscono di più. Noi abbiamo anche cantato Il pilota di Hiroshima, chi ci avrebbe mai pensato? Con tutto il rispetto per la Orietta Berti, noi non canteremo mai Finché la barca va. Non ci interessa essere alla moda. Perché le mode passano, se sei fuori moda non passi mai. E mai come quest’anno i nostri concerti sono stati pieni, e non è che abbiamo scritto Yesterday. In tv andiamo poco, in radio ci trasmettono ogni morte di papa. Ma siamo nelle piazze, siamo tra la gente. Ed è li che vogliamo stare.