Capire perché le stragi di Capaci e via d’Amelia è complesso e non del tutto ancora possibile. L’ultimo libro del giornalista Paolo Borrometi ("Traditori. Come fango e depistaggio hanno segnato la storia italiana", Solferino) alcune risposte prova a darle, seguendo la scia di quelli che hanno tradito. Tradito Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, certo, così come le troppe vittime della criminalità organizzata, ma tradito anche noi cittadini e cittadine di questo Paese. Di seguito pubblichiamo la “premessa” del volume.

Raccontare è complesso. È devastante spesso per chi racconta prima ancora che per chi legge. Raccontare ha un prezzo alto, troppo alto. Perché nel nostro Paese troppe cose, per alcune persone, non andrebbero raccontate. Tenendo la maggioranza all’oscuro, è più facile compiere i crimini più efferati, si nascondono meglio i traditori. E allora le "armi di distrazioni di massa" sono le più diffuse, come diffuse sono le considerazioni su chi si impegna per la ricerca della verità.

C’è sempre qualcuno pronto a muovere l’accusa: "è pazzo", "è visionario". Oppure, in modo più distaccato: "è uno squilibrato". Poi, quando i fatti emergono in tutta la loro chiarezza, si passa alla tesi "dell’interesse personale". Vorrei tanto cercare di raccontarla dall’esterno, in maniera distaccata. Ci proverò, nonostante purtroppo sia (anche) la mia storia di sofferenza. E con la sofferenza devo farci i con-ti, non posso sfuggire, non posso chiudere gli occhi e dimenticare. Devo attraversarla e viverla catarticamente.

Ricordo come fosse ieri l’episodio che cambiò drammaticamente la mia vita, il 16 aprile del 2014. Quel giorno mi presero a calci fino a massacrarmi. "Ora u capisti? T’affari i cazzi tuoi. U capisti?". Mi lasciarono a terra con una spalla rotta in più punti. Da allora, oltre al dolore fisico, dovetti affrontare altri dolori, quelli della delegittimazione. Essere stato massacrato di botte, secondo qualcuno, era persino una colpa, quasi dovessi essere io a giustificarmi. Sono stato costretto a una vita sotto scorta, blindata, ma non fu la cosa peggiore. Iniziai a fare i conti con affermazioni del tipo "Borrometi si inventa tutto", sono solo "fantasie". Dovetti persino toccare con mano la strisciante umiliazione che coinvolse la buonanima di mio padre, accusato di aver contribuito alla "messinscena del figlio".

Incredibile, assurdo, frustrante. Tutto mentre la mia spalla rimaneva offesa per la vita e gli enormi lividi morali restavano scolpiti in me. E continuò a essere così quando diedero fuoco alla porta di casa mia o quando a piovermi addosso furono le condanne a morte: prima quella del capomafia di Vittoria, Giovan Battista Ventura, poi quelle del boss Venerando Lauretta, poi ancora quelle di Francesco De Carolis, fratello del sanguinario mafioso siracusano, Luciano (detto Ciano u nanu). Fino alle minacce del capomafia di Pachino, Salvatore Giuliano. E di tanti altri, purtroppo. Tutte aggressioni e intimidazioni cristallizzate ormai in sentenze. E poi le intercettazioni drammatiche dell’aprile 2018, quelle che il Gip di Catania definì "l’eclatante azione omicidiaria per eliminare lo scomodo giornalista". Io, appunto.

So bene che siamo in un momento storico in cui il problema non è più la mafia ma, per certi versi, l’antimafia. Lo so bene e lo so a mie spese, avendo sempre urlato che "rifiuto con forza il bollo di giornalista antimafia: non può esistere nessun giornalista antimafia, anticorruzione, antillegalità. Alcuni cittadini di professione fanno i giornalisti. È solo il loro dovere. Tutto qui". Eppure dopo averlo urlato e scritto per anni, incredibilmente, in quest’ultimo periodo mi sono sentito dire che mi autodefinivo "giornalista antimafia". Pur di nullificare, delegittimare ciò che scrivevo, si utilizzava qualsiasi mezzo.

L’esaltazione della bugia. Così che a farne le spese, dopo me e mio padre, fu tutta la mia famiglia. Come quando un boss al 41-bis del quale avevo svelato i traffici criminali scrisse una lettera – incredibilmente uscita dal carcere e pubblicata su un giornale online – in cui si diceva che "Borrometi dovrebbe guardare alle corna che si fanno nella sua famiglia piuttosto che scrivere articoli". O ancora che mio nonno, gentiluomo di altri tempi e persona adamantina, fosse uno "strozzino e usuraio". E nulla hanno significato i cinquantasei processi in cui sono (o sono stato) parte offesa per gravissimi reati subìti, a confronto di un processo in cui sono (e spero presto di poter dire "sono stato") imputato per diffamazione.

Per che cosa? Per aver tentato di contribuire alla ricerca della verità. Eppure quei processi in cui ogni volta ho testimoniato da cittadino, costretto a sedermi davanti a chi mi avrebbe voluto vedere morto, hanno portato a ben trentatré condanne. Sì, avete letto bene, non so quanti altri in Italia. Trentatré condanne. Anzi trentatré condannati, per i reati commessi nei miei confronti: dalle gravi minacce, ai progetti di morte, fino alle diffamazioni, delegittimazioni, insulti. Ma nulla, il problema è sempre chi scrive, chi denuncia, chi scava, chi non si arrende, chi ha la voglia di farsi domande.

Immaginate cosa voglia dire quel dolore nel cuore nel leggere queste fesserie. Il cosiddetto "mascariamento". Cosa vuol dire? Vuol dire sporcare l’immagine di una persona per renderla non credibile. Perché se tutte le pecore appaiono nere, quelle che lo sono davvero lo appariranno molto meno, ovviamente. È la mia storia, è la storia di tanti, purtroppo. È la storia di sofferenza tipica del nostro Paese, dove le vittime vengono lasciate nel loro dolore a chiedere verità e giustizia. Verità e giustizia che tardano ad arrivare o, forse è meglio dire, rischiano di non arrivare mai.

Il percorso della ricerca della verità è irto di ostacoli, innanzitutto – come si diceva – sul piano della credibilità. Allora accade che a Giovanni Falcone si dica che la bomba dell’Addaura "l’avesse piazzata lui stesso", oppure che l’agenda rossa scomparsa di Paolo Borsellino non fosse che un "parasole". O ancora che don Diana fosse un "camorrista" o Peppino Impastato un "terrorista". La lista sarebbe lunga e cercherò, seppur purtroppo parzialmente, di snocciolarla tra le pagine di questo libercolo.

In questo Paese, sì, la verità ha un costo altissimo per chi la ricerca. Ero assai indeciso sul pubblicare questo libro, nove anni di vita sotto scorta, di minacce, di aggressioni, di processi, di testimonianze mi hanno fiaccato. Poi ho capito che era mio dovere scriverlo e continuare così a dare il mio piccolo contributo alla ricerca della verità.

Dopotutto sono un ex balbuziente e chi ha compreso cosa voglia dire non riuscire a parlare, quando poi riesce a farlo non teme più nulla. Perché "perdere la parola" è la più grande sofferenza, la più grande mancanza di libertà. E tutte le persone di cui parlerò, che siano privati cittadini, donne o uomini di Stato, testimoni di Giustizia, o ex mafiosi che hanno compreso quanto alto sia stato il loro errore (Ilardo su tutti), sono morte libere. Perché non c’è nulla di più forte, di più esplosivo della libertà.

L’ho scritto perché ho compreso che mentre c’è chi piange, c’è anche chi ride e si compiace per il caos messo in piedi. Caos che contribuirà a generare altro caos e quindi ad allontanare la verità, con la confusione. È ciò che è successo nel nostro Paese, una democrazia troppo giovane o non ancora matura, dove un filo rosso ha legato le sofferenze di tanti con gli interessi di pochi.

Spesso a giustificare tutto c’era la "ragione di Stato". Spesso manine impertinenti pulivano o ripulivano i luoghi della sofferenza. E si finisce per non pensare a ciò che è accaduto all’agenda rossa di Paolo Borsellino, al computer di Giovanni Falcone o alla cassaforte della prefettura di Palermo, svuotata mentre veniva ucciso Carlo Alberto Dalla Chiesa. In questo viaggio i nostri compagni saranno le vittime oltre alle anomalie, ai buchi neri e ai fatti che ho cercato di analizzare da giornalista e non da storico.

Fatti, però. Perché la Sicilia è la terra dove tutto è iniziato, una madre attonita di figli cresciuti nel tempo. Dallo sbarco degli americani, in Sicilia prima e in Italia poi, abbiamo sempre avuto una verità di comodo, se non più verità di comodo. E alla fine si è sempre ricorsi a estremismi (sempre sbagliati – e sfruttati – al di là del loro colore politico), alla mafia (o alle mafie, se allarghiamo il discorso), ai traditori, ad angeli rivelatisi demoni.

E tra tanti, troppi hanno tradito. I traditori, coloro che non rimangono fedeli ai propri ideali ma seguono il proprio interesse, diventando i nuovi Giuda Iscariota. Capaci di vendere le persone per "trenta denari d’argento". O per molto meno. Non sono infami, linguaggio che non ci appartiene, sono semplicemente criminali. Criminali che hanno causato morti, sofferenze. E che, in alcuni casi, continuano a farlo.

Forse questo non sarà un reato, ma lo è sotto il profilo morale. E nessuno si senta assolto, perché tutto ciò è accaduto con la connivenza, o il silenzio, o l’indifferenza di troppi. Rimbocchiamoci le maniche, partiamo per questo viaggio, perché come diceva Bertolt Brecht: "Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente".