Dieci anni fa, il 28 novembre del 2011, se ne andava Lucio Magri, comunista eretico e tra le più curiose e creative menti che abbiano attraversato la sinistra italiana della Prima Repubblica. Di formazione cattolica – la sua prima militanza politica si svolge infatti nella Dc, dove organizza i giovani democristiani di osservanza dossettiana –, approderà al Pci quasi in controtendenza, prendendo la tessera del partito in quel fatidico 1956 che per certi versi ha segnato, al contrario, una prima traumatica rottura tra comunismo italiano e intellettualità diffusa.

Nell’ambito di una militanza che soprattutto nei primi anni cerca di immaginare le modalità per mettere a frutto la comune ispirazione anti-individualistica di cattolici e marxisti, entrerà in una sintonia viepiù crescente con le tematiche e le riflessioni sviluppate dalla sinistra interna al partito, in maniera più o meno formalmente raccolta attorno alla figura di Pietro Ingrao. È in questo frangente che iniziano ad emergere le questioni e i filoni di ricerca che caratterizzeranno l’interna vicenda politica e intellettuale di Magri.

Se in occasione del famoso convegno del ‘62 sulle tendenze del capitalismo italiano Magri si fa sostenitore, insieme a Trentin e Banfi, della tesi del salto di qualità compiuto dal capitalismo nostrano – un salto che lo avrebbe condotto fuori dallo schema tradizionale del capitalismo straccione e arretrato, essendo semmai capace di mostrare un più accentuato dinamismo e più raffinate tecniche di sfruttamento e valorizzazione – negli anni successivi affronterà temi quali la natura e il modo di essere del partito, il superamento dello schema strategico ereditato dalla stagione dei fronti popolari (centrato sulla difesa degli istituti democratico-rappresentativi e sulla lotta ai monopoli economici), la funzione svolta dai consigli operai e dalle forme di democrazia diretta e di base dentro un processo di trasformazione sociale. I nodi teorici, insomma, che contraddistingueranno l’eresia del manifesto sia prima che dopo la sua radiazione dal Pci, e che vedranno instaurarsi un nesso sempre più forte e stringente con l’elaborazione di Antonio Gramsci.

Compiendo, in ciò, una svolta e una rottura rispetto alla linea di politica culturale seguita dal Pci e da Togliatti sino a quel momento: ossia una linea che aveva fino a quel momento privilegiato il Gramsci interprete del Risorgimento e teorico del completamento della rivoluzione democratico-borghese da parte della classe operaia, a scapito però del Gramsci analista dei processi di americanizzazione delle forme di produzione e della natura ambivalente del fordismo.

I primi anni del manifesto, ponte tra tradizione comunista e nuova sinistra
A partire dunque da un profondo riesame della prassi e della strategia che aveva fino a quel momento orientato i partiti della sinistra, la prospettiva verso cui il gruppo del manifesto (ormai esterno al Pci e autonomo nella sua azione politica) sembra intenzionato a lavorare è quella di una globale e complessiva “rifondazione del movimento operaio”. Per una lunga parte degli anni Settanta, la realizzazione di questa rifondazione sembra per Magri e i suoi compagni poter passare attraverso il dialogo e la contaminazione tra la vecchia tradizione comunista (e in parte socialista: si pensi alla collaborazione, seppur di breve durata, con la sinistra psiuppina di Foa e Miniati) e i nuovi movimenti emersi durante il ‘68. Movimenti che avevano posto al centro, tra gli altri, obiettivi e tematiche quali il rifiuto della delega, la messa in discussione della rigida divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, la critica alla presunta neutralità di scienza e tecnologia.

Fino alla metà degli anni Settanta, convinzione del gruppo del manifesto (nel frattempo strutturatosi in Pdup, in seguito all’unificazione con la sinistra socialista di Foa) è che la necessità di costruire un ponte e uno strumento di congiunzione tra vecchio e nuovo, tra tradizione e modernità, passi attraverso l’inevitabile coagulazione della “nuova sinistra” in unico soggetto politico. Solo in seguito al seminario interno tenutosi a Bellaria nel 1977, verrà meno la centralità che il campo della “nuova sinistra” emersa col ‘68 aveva occupato sino a quel momento nella costruzione strategica di Magri, determinando una rottura insanabile tra il segretario del Pdup e Rossana Rossanda – e, conseguentemente, tra il piccolo partito e il giornale che fino a quel momento ne aveva costituito il principale organo di comunicazione.

La fase matura del Pdup e la ricerca intorno alla terza via
L’assunzione del Pci quale principale interlocutore di questo processo di rifondazione della sinistra  contribuirà a fare emergere nella riflessione di Magri l’esigenza di individuare una “terza via” nei processi di transizione verso il socialismo, alternativa cioè tanto al modello sovietico, quanto alla pratica delle esperienze socialdemocratiche. Un concetto, quest’ultimo, che nell’elaborazione del leader del Pdup non può essere inteso come una sorta di incontro a metà strada tra le due tradizioni, ma solo come una sintesi che abbia alla sua base il superamento dialettico dei limiti che, seppur in forme e con declinazioni diverse, avevano contraddistinto entrambi i tronconi del movimento operaio: economicismo e statalismo, fiducia acritica nello sviluppo delle forze produttive da un lato e centralità della conquista dello Stato o (del governo) dall’altro.

Una critica duplice dunque, che imponeva alla soggettività politica la necessità di delineare, nella sua azione quotidiana, quella che Magri definisce una “positività proletaria” in grado di prefigurare istituzioni, valori e logiche di sviluppo alternative e autonome. Riprendendo l’idea gramsciana di una guerra di posizione volta a conquistare gradualmente le principali casematte della società, quello proposto da Magri è quindi un processo di trasformazione carsico e molecolare, da sviluppare già dentro il capitalismo e anticipando il momento – a quel punto formale – della conquista del potere politico. Elementi di criticità, questi, che mettono in risalto come l’idea di terza via riguardi tanto il progetto di società da realizzare e quanto la strategia di transizione per realizzarlo, tenendo saldamente insieme il “fine” e il “movimento”, per richiamare due celebri espressioni di quel Bernstein-debatte che a partire dalla fine Ottocento ha tormentato prospettiva e strategia della sinistra.

Mattia Gambilonghi, Fondazione Di Vittorio