A partire dagli anni Novanta si è diffusa nel senso comune un’immagine precisa, che leggerebbe romanticamente la figura di Pietro Ingrao, esaltando alcuni aspetti della sua personalità – la passione per la poesia e per il cinema, l’attitudine anti-dogmatica tesa a ‘praticare il dubbio’ e a guardare con simpatia alle diverse eresie sviluppatesi in seno al movimento operaio. Aspetti che, presi da soli, farebbero del comunista lenolese un semplice acchiappanuvole. Un profeta disarmato insomma, o ancora meglio un sognatore che ‘voleva la luna’.

Si tratta di una grave semplificazione, ai limiti della vera e propria caricatura, che sottovaluta o addirittura ignora la lunga e ricca attività di ricerca e di riflessione portata avanti da Ingrao tra gli anni Sessanta e l’inizio dei Novanta. Una riflessione – quella sviluppata a proposito delle assemblee elettive e delle forme della politica di massa, oltre al nesso che deve stabilirsi tra queste e una prospettiva di trasformazione in senso socialista – che tenterà parzialmente di mettere a frutto e tradurre in pratica durante la sua esperienza di presidente della Camera. Ma che contribuirà innanzitutto, negli anni più duri del ‘duello a sinistra’ –  alimentato da Craxi e dal revanscismo insito nel ‘nuovo corso’ del Psi – a definire con più nettezza la fisionomia dell’elaborazione e della proposta comunista. In questo senso, la querelle avviata da Bobbio intorno al nodo dell’esistenza o meno di una compiuta teoria marxista dello Stato e della democrazia, rappresenta un momento esemplare ai fini della comprensione del contributo intellettuale di Ingrao.

Il marxismo e lo Stato: il dibattito con Bobbio
Pur concordando con Bobbio – che ritiene inafferrabili, in quanto mai esplicitati in maniera dettagliata, i contorni della democrazia socialista invocata dal movimento comunista – circa i ritardi e le vere e proprie lacune teoriche accumulate dal pensiero marxista in termini di teoria delle istituzioni democratiche, Ingrao rifiuta però decisamente la pars costruens del ragionamento bobbiano in ragione della fallacia e della non produttività teorica dell’approccio modellistico da lui adoperato. Un simile approccio infatti, oltre ad eternare, ipostatizzandola, la democrazia parlamentare rappresentativa “come canone della democrazia tout-court”, rischia agli occhi di Ingrao di produrre un discorso sulle differenti forme di Stato viziato di astrattismo. Ad essere affermata è la necessità di immergere i “problemi dell'organizzazione e dello sviluppo della democrazia” nella concretezza dei processi storici: facendo riecheggiare le tesi della marxiana Questione ebraica, Ingrao rimprovera insomma a Bobbio di riuscire a “parificare padrone e operaio nelle procedure” solamente prescindendo dalla “loro collocazione nel meccanismo produttivo” e unificando le due figure nella astratta categoria del cittadino, quando è invece chiara e lampante ai suoi occhi l'azione distorsiva delle procedure che presiedono ai meccanismi di formazione della volontà collettiva  messa in atto da quei ‘poteri privati’ che avocano a sé – a danno degli “organi rappresentativi” – le “grandi decisioni economiche”.

Socialismo e democrazia di massa
Affinché la democrazia possa assumere la natura “sovversiva” che lo stesso Bobbio sembra riconoscergli, a parere di Ingrao vanno sviluppate appieno quelle potenzialità che renderebbero la stessa incompatibile con le logiche gerarchiche e privatistiche “insite nel meccanismo capitalistico”, risolvendo positivamente la sua “incompiutezza”. Innestandosi su una precisa lettura della Carta costituzionale, della sua filosofia e del ruolo ‘programmatico’ che sin dalla Costituente e dal 1956 le aveva attribuito la tradizione comunista, si tratta dunque di abbattere lo steccato tra politica ed economia: la democrazia rappresentativa va quindi espansa ben “oltre i limiti tradizionali della democrazia liberale”, delineando una “emancipazione politica a più dimensioni” che sia in grado di assegnare alla democrazia rappresentativa una prospettiva radicalmente innovativa rispetto alle funzioni fino a quel momento riconosciutegli dal liberalismo storico.

Quella immaginata da Ingrao – sulla scorta dei processi storici reali di quegli anni: si pensi solo all’esperienza del sindacato dei consigli – è una ‘democrazia mista’, entro cui la dimensione rappresentativa vede rinnovata – oltre che potentemente riqualificata – la sua capacità ricompositiva e di sintesi proprio grazie all’apporto delle più diverse forme di ‘democrazia di base’ sorte in seguito al secondo biennio (consigli di fabbrica, consigli di quartiere, consigli scolastici, ecc.). In particolare, è al ruolo giocato dagli istituti e dalle forme della democrazia dei produttori che bisogna guardare: questi avrebbero infatti non tanto una valenza settoriale e corporativa, tale cioè da segnare un arretramento rispetto all'universalizzazione e all'eguagliamento formale realizzati con la rappresentanza parlamentare, quanto piuttosto un “carattere espansivo”, in grado di approfondire la democrazia rappresentativa sostanziandola e concretizzandola. La ‘democrazia del socialismo’ – che non a caso punta a proporsi come una concezione “allargata” della democrazia – si caratterizza perciò come lo strumento tramite cui realizzare una riappropriazione della politica da parte dei subalterni, e ciò in quanto pluralizza le forme stesse della politica e immette l'intervento politico delle masse nel campo della produzione (riconnettendole con i mezzi ed i fini di questa).

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Una strada, quella indicata da questa ‘democrazia organizzata di massa’, lungo la quale sarebbe possibile agli occhi di Ingrao lavorare concretamente sulla lenta e progressiva ricomposizione della scissione – intravista dal giovane Marx – tra la figura del cittadino e quella del produttore. Ma che, al tempo stesso, non riuscirà mai a imporsi quale reale alternativa alle democrazie liberali postbelliche, sia per via della mancata esplicitazione di alcuni nodi teorici fondamentali (come quello relativo alle modalità di raccordo tra democrazia parlamentare e ‘democrazia di base’), sia in ragione della sottovalutazione di una problematica più generale e di fondo: se è infatti vera la tesi della non equivalenza e dell’impossibile sovrapposizione concettuale tra democrazia e capitalismo, storicamente il movimento operaio di ispirazione marxista, una volta giunto al potere e fattosi Stato, non è mai riuscito a salvaguardare l’esistenza della prima una volta eliminato il secondo; né, tanto meno, a prefigurare compiutamente sul piano teorico delle efficaci contromisure in grado di scongiurare un simile esito. 

Mattia Gambilonghi, ricercatore Fondazione Di Vittorio